Celle chiuse anche al carcere di Busto Arsizio, quello della sentenza Torreggiani, che al 31 ottobre scorso ospitava 430 detenuti a fronte una capienza regolamentare di 240 posti
Nel mio lungo tour delle prigioni ho visto cose che voi umani non potete nemmeno lontanamente immaginare. C’è stato un lungo periodo, durato per diversi anni, in cui il sovraffollamento aveva raggiunto livelli disumani con oltre sessantamila presenze nelle carceri a fronte di 48mila posti regolamentari. Le persone venivano stipate nelle celle peggio degli animali e c’era penuria di ogni cosa, dalla carta igienica al cibo, che non bastava mai per sfamare le bocche di tutti i disperati che affollavano i vari gironi dell’inferno. L’unica cosa che abbondava era il tempo, così ci si ingegnava per impiegarlo. In uno dei momenti di noia e disperazione ho costruito un righello in cartone da venti centimetri, prendendo a riferimento la misura certa di un foglio di block notes, e munito dello “strumento” mi sono steso a terra per ore a misurare la superficie che aveva a disposizione ognuno degli occupanti della cella. Completato il calcolo, è emerso un dato che non ha bisogno di commenti: in quella cella del carcere di Busto Arsizio avevamo a disposizione novanta centimetri quadrati di spazio individuale, più o meno quanto lo schermo del televisore che abbiamo a casa.
Non ci voleva molto per capirlo, dato che ci si
doveva alzare dal letto a turno perché non si poteva stare contemporaneamente
in piedi; perciò, occorreva essere ben sincronizzati e gestire al meglio ogni
movimento per non pestarsi letteralmente i piedi. Acrobazie da circo per
ventidue ore al giorno, chiusi dentro alla gabbia peggio dei maiali; docce comuni
a giorni alterni perché l’acqua non era sufficiente, due ore d’aria al giorno e
poi il nulla assoluto. Una sentenza della Corte Europea ha stabilito che questa
"cosa" si chiama tortura, mentre i forcaioli benpensanti ritengono
che si tratti di un trattamento da hotel: “hanno anche la televisione, di cosa
si lamentano?”. Io la TV non la guardo più, ho un rifiuto profondo.
Sono
trascorsi oltre dieci anni dalla sentenza Torreggiani con cui la CEDU, con una
sentenza pilota, condannava l'Italia per il “trattamento inumano e degradante”
di sette persone ristrette nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza. In
base all’art. 3 della Convenzione, con la sentenza Torreggiani la Corte EDU
accusa l'Italia di violare i diritti dei reclusi costringendoli a vivere in
celle in cui hanno a disposizione meno di tre metri quadrati ciascuno di
spazio. Il nostro Paese deve risarcire i sette detenuti per un totale di cento
mila euro per essere stati “torturati”, così come previsto dall’art. 3 della
Convenzione. Ma, soprattutto, nel testo della sentenza della Corte europea dei
diritti umani si legge chiaramente l'invito al nostro Paese a porre rimedio,
subito, al sovraffollamento carcerario. Una soluzione adottata velocemente fu
quella di consentire alle persone di trascorrere parte della giornata fuori
dalle celle durante il giorno, ma la sorveglianza dinamica venne immediatamente
osteggiata dalle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria.
Stando
ai dati forniti dal ministero della Giustizia, il carcere di Busto Arsizio, proprio
quello della sentenza Torreggiani, al 31 ottobre scorso ospitava 430 detenuti a
fronte una capienza regolamentare di 240 posti. Nei prossimi giorni, come in
molti altri istituti, anche a Busto Arsizio verrà applicata la circolare
ministeriale che prevede il ripristino del regime a celle chiuse per i circuiti
di media sicurezza. In altre parole, si riparte dal via: venti ore su
ventiquattro chiusi in celle sovraffollate, con poche attività trattamentali e
nessuna prospettiva di rieducazione finalizzata al reinserimento sociale.
Le
persone recluse in condizioni disumane potranno inviare un reclamo al
magistrato di Sorveglianza che dovrà ordinare all’amministrazione Penitenziaria
di porvi rimedio. A seguito della sentenza Torreggiani, la soluzione adottata
dall’Italia consiste infatti, nell’art.35-ter che prevede rimedi risarcitori in
favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in
violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ("nessuno può essere
sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). In
sostanza, coloro che hanno subito un trattamento non conforme ai criteri
stabiliti dalla Convenzione per un periodo di tempo non inferiore a quindici
giorni possono ottenere, a titolo di risarcimento del danno, la riduzione della
pena detentiva ancora da espiare pari ad un giorno per ogni dieci durante i
quali è avvenuta la violazione del loro diritto. I soggetti che hanno espiato
una pena inferiore ai quindici giorni e coloro che non si trovano più in stato
di detenzione (o la cui pena ancora da espiare non consente la detrazione per
intero del beneficio appena descritto), invece, hanno diritto ad un
risarcimento pari ad 8 euro per ciascun giorno di detenzione trascorsa nelle suddette
condizioni. Otto euro al giorno, il prezzo della tortura.
In
ultima istanza rimane sempre la possibilità di ricorrere a Strasburgo, dove è
prevedibile che -come nel 2013- si accumuleranno migliaia di reclami ad
intasare le attività della Corte EDU. Ma ottenere giustizia costa e molti
rinunciano per sfinimento e per mancanza di risorse; probabilmente sarà solo
per questo che l’Italia rimarrà impunita. Si rassegnino coloro che vivono in
condizioni disumane e degradanti nelle carceri, le proteste potrebbero essere
qualificate come rivolte o “resistenza passiva all’esecuzione degli ordini” per
le quali l’ennesimo pacchetto sicurezza prevede una pena da due a otto anni di
reclusione.
Claudio Bottan
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