INFO GIUSTIZIA



27 febbraio 2018. da Questione Giustizia (Magistratura Democratica)

Carcere, quel basso profilo scelto dai magistrati che tradisce la storia dell'Anm
L’Anm rinuncia a una netta presa di posizione in favore della riforma Orlando. Correnti spaccate. Nel dibattito emergono posizioni burocratiche e demagogiche della giustizia e dell’esecuzione penale.


«C’è sulla piazza un impiccato, condannato a morte dal giudice. La sentenza è stata eseguita; ma la sentenza era ingiusta: l’impiccato era innocente.
Chi è responsabile per aver assassinato quell’innocente? Il legislatore che nella sua legge ha stabilito in astratto la pena di morte o il giudice che l’ha applicata in concreto?
Ma il legislatore e il giudice, l’uno e l’altro, trovano il mezzo per salvarsi l’anima col pretesto del sillogismo.
Il legislatore dice: - Io non ho colpa di quella morte, io posso dormire tranquillo: la sentenza è un sillogismo, del quale io ho costruito soltanto la premessa maggiore, una innocua formula ipotetica, generale ed astratta, che minacciava tutti, ma non colpiva nessuno. Chi l’ha assassinato è stato il giudice, perché è lui che dalle premesse innocue ha tratto la conclusione micidiale, la lex specialis che ha ordinato l’uccisione di quell’innocente. -
Ma il giudice dice a sua volta: - Io non ho colpa di quella morte, io posso dormire tranquillo: la sentenza è un sillogismo, del quale io non ho fatto altro che estrarre la conclusione dalla premessa imposta dal legislatore. Chi l’ha assassinato è stato il legislatore con la sua legge, la quale era già una sententia generalis, in cui anche la condanna di quell’innocente era racchiusa. –
Lex specialis, sententia generalis: così legislatore e giudice si rimandano la responsabilità; e possono dormire, l’uno e l’altro, sonni tranquilli, mentre l’innocente dondola dalla forca.
Ma questa non può essere la giustizia di una democrazia; questo non può essere il giudice degno della Città degli uomini liberi».
Questo brano di Piero Calamandrei, tratto dalle sue Opere giuridiche, mi è venuto in mente dopo il dibattito del Comitato direttivo centrale dell’Anm sul parere alla riforma dell’ordinamento penitenziario (rinviata dal Governo a un passo dal traguardo definitivo). Non ho partecipato alla riunione del Cdc né ne ho letto sui giornali. Ma grazie a Radio radicale ho potuto vedere e ascoltare i magistrati intervenuti al dibattito, sfociato in una mozione di Unicost (corrente centrista dell’Anm) approvata soltanto con i voti dei suoi 13 esponenti, contrari i 7 rappresentanti delle correnti di destra, Mi e A&I, astenuti gli 8 “progressisti” di Area.
La mozione è un capolavoro di fariseismo, in cui c’è tutto e il contrario di tutto e, dunque, è perfetta per una magistratura divisa e in campagna elettorale (per il rinnovo del Csm). Quel che colpisce, in questa vicenda, è la rinuncia dell’Anm a un pezzo della sua storia, e cioè all’assunzione di responsabilità politica in un passaggio determinante per la civiltà e la cultura giuridica oltre che per la politica penitenziaria di questo Paese. Non cogliere questo snodo, fingere di non coglierlo o, peggio ancora, ignorarlo per interessi “di bottega”, rivendicando un’apoliticità degna di miglior causa, è, a mio giudizio, la negazione della storia dell’Anm.
Ma se l’epilogo lascia l’amaro in bocca, ancora più amaro è il sapore degli interventi contrari all’approvazione immediata del parere favorevole che era stato messo a punto, e proposto, dalla Commissione-carceri (formata da numerosi magistrati di sorveglianza) dopo tre mesi di lavoro. Proprio quegli interventi mi hanno ricordato le parole di Calamandrei sul pericolo dell’indifferenza burocratica del magistrato e sul metodo del sillogismo, che sembra fatto apposta per “togliere al giudice il senso della sua terribile responsabilità e per aiutarlo a dormire sonni tranquilli”.
Con le ovvie distinzioni, il ragionamento funziona anche rispetto alle preclusioni e agli automatismi eliminati dalla riforma penitenziaria per restituire al magistrato di sorveglianza il potere di decidere misure alternative e benefici, valutando l’effettivo percorso “rieducativo” del condannato. Si tratta di una delle più importanti novità della riforma e va letta anche in termini di maggiore sicurezza collettiva se è vero, com’è vero, che la valutazione di un giudice dà maggiori garanzie di un automatismo. Certo, è una modifica che responsabilizza ancora di più il magistrato di sorveglianza perché lo costringe a occuparsi del percorso del condannato non in termini burocratici, affidandosi cioè a meri automatismi. Ma questo, del resto, è il cuore della sua funzione.
Negli ultimi anni, la discrezionalità dei giudici è stata oggetto di una progressiva erosione da parte della politica. Che, anche per questa via, ha cercato di ridurre il potere della magistratura. Nel penale come nel civile e in particolare nella materia del lavoro, il legislatore ha posto una serie di paletti alla discrezionalità del giudice (salvo esaltarne l’importanza se si tratta di far valere le cosiddette compatibilità economiche). Anche in materia penitenziaria è andata così, sia con la creazione di una serie di preclusioni alla personalizzazione della pena sia con la trasformazione della personalizzazione in una somma di automatismi. Il magistrato di sorveglianza ha finito così (salvo eccezioni, ovviamente e fortunatamente) per trasformarsi in una sorta di ragioniere: una posizione frustrante rispetto al senso della funzione da esercitare, ma rassicurante perché deresponsabilizzante sia rispetto alla presunta certezza della pena sia rispetto ad eventuali “errori”.
Questa tendenziale burocratizzazione del ruolo del magistrato di sorveglianza è una delle ragioni di fuga dalla relativa funzione. Perciò la “restituzione” del potere di valutare e di decidere – come conseguenza dell’eliminazione di preclusioni e automatismi – dovrebbe essere vissuta positivamente dalla magistratura, a cominciare da quella associata. Ed è davvero paradossale che qualcuno, invece, colleghi a questa modifica il rischio o la percezione di una maggiore insicurezza collettiva o addirittura la prospettiva di un “liberi tutti”. Fra l’altro, sono argomenti-boomerang, perché alimentano la sfiducia nella giustizia e danno la sensazione di una magistratura che preferisce un ruolo burocratico e deresponsabilizzante.
Ecco perché, al di là della mozione finale, a colpire sono soprattutto gli argomenti utilizzati per non prendere posizione in senso positivo sulla riforma, chiamandosi fuori dalla mobilitazione di tanti giuristi.
Ho sentito parlare dell’«inopportunità» di esprimere un’opinione «a una settimana dal voto, su uno strumento politico», e poco importa – è stato addirittura sottolineato – se «la riforma sia la migliore del mondo».
Ho sentito confermare questa valutazione di inopportunità perché «il Governo ha fatto della riforma un cavallo di battaglia (sic, ndr) per cui un parere dell’Anm diventerebbe, in questo momento storico, un supporto o un ostacolo al Governo» (ma «se proprio si deve dare, il nostro parere è assolutamente negativo», è stata la conclusione).
Poi però ho sentito dire che il Governo non è compatto, che c’è uno scontro tra il ministro della giustizia Orlando e il ministro dell’interno Minniti e che l’Anm non si deve inserire in questa «spaccatura».
Ho sentito dire che «molti magistrati di sorveglianza non condividono neanche una parola della riforma», (e qui, giù applausi della platea).
Ho sentito obiettare che la rieducazione del condannato non è l’unica finalità della pena perché ci sono anche le finalità «special preventive». «I cittadini – quindi – devono sapere che la pena c’è e che la pena è certa».
Più volte ho sentito evocare la «certezza della pena» e le esigenze di sicurezza della collettività, quasi che la riforma sia una sorta di «liberi tutti» per «svuotare le carceri».
Ho sentito dire che il superamento delle preclusioni e degli automatismi è cosa buona e giusta ma «non in toto».
Qualcuno ha persino definito «autoreferenziale» il plauso per la restituzione al magistrato di sorveglianza del potere di decidere e ha invitato a considerare le riforme come «espressione di un modo di vedere la vita». E poiché questa riforma «incide sulla vita dei cittadini, non si può pensare che il parere dell’Anm non venga valutato anche nel dibattito politico, che vede in contrasto Minniti e Orlando».
In sostanza, la riforma non può essere valutata né politicamente né giuridicamente dall’Anm, «perché incide sulla vita dei cittadini e anche delle vittime dei reati».
Ho sentito protestare contro chi (Area) richiamava l’attenzione sul «dovere» dell’Anm di esprimere un parere subito perché c’è una scadenza imminente e di esprimere un parere positivo perché la riforma va verso la personalizzazione della pena e restituisce al magistrato il potere di decidere che gli era stato tolto con automatismi e preclusioni.
Ho sentito sostenere che si debbano ancora approfondire alcuni «spunti critici», tra cui l’apertura ai recidivi («Possibile – si è chiesto qualcuno – che l’irrigidimento del legislatore nel processo penale contro i recidivi venga cancellato con un tratto di penna nella riforma dell’ordinamento penitenziario?»). E ho sentito lamentarsi del poco tempo che c’è stato per approfondire e riflettere sui decreti delegati (tre mesi…).
Si potrebbero ricordare i numerosi casi in cui l’Anm – almeno da una trentina d’anni – ha doverosamente e tempestivamente detto la sua su riforme importanti, delicate e anche divisive. Si potrebbe ricordare che l’Anm, anni fa organizzò un grande convegno su carcere e misure alternative, che andava nella stessa direzione della riforma (su cui oggi non è «opportuno» pronunciarsi). Si dovrebbe anche ricordare, però, il profilo bassissimo tenuto, a conclusione degli «Stati generali sull’esecuzione penale», dall’Anm di Piercamillo Davigo, che guidava una compagine “unitaria”… .
Quanto basta per chiedersi se la magistratura non abbia cambiato pelle in questi ultimissimi anni e se l’unitarietà sia davvero un valore “che fa la forza” oppure soltanto una pericolosa zavorra culturale. E allora vale la pena, un’altra volta, rileggersi Calamandrei: «Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici e in generale tutti i pubblici funzionari è il pericolo dell’assuefazione, dell’indifferenza burocratica, dell’irresponsabilità anonima. Per il burocrate gli uomini cessano di essere persone vive e diventano numeri, cartellini, fascicoli: una pratica, come si dice nel linguaggio degli uffici, cioè un incartamento sotto copertina, che racchiude molti fogli protocollati, e in mezzo ad essi un uomo disseccato. Per il burocrate gli affanni dell’uomo vivo che sta in attesa non contano più: vede quell’incartamento ingombrante sul suo tavolino e solo si cura di trovare un espediente per farlo passare sul tavolino di un altro burocrate, suo vicino di stanza, e scaricare su di lui il fastidio di quella rogna. Guai se questa indifferenza burocratica entra nei giudici; guai se si assuefanno al richiamo pungente della loro responsabilità».
Guai, appunto.
Donatella Stasio
27 febbraio 2018





Da il manifesto del 26 aprile 2012, pagina 7
La cultura patibolare della sinistra
di  Eleonora Martini
Nel giorno della Liberazione, nella capitale in centinaia manifestano per la riforma del sistema penitenziario. Parla Massimo Pavarini, docente di diritto all'università di Bologna «Nemmeno i padri costituenti seppero trovare un'alternativa al carcere. E alla pena contrapposta al reato»
Di certo non sfuggì, ai padri costituenti della Repubblica italiana, l'importanza della questione giustizia e carcere nella costruzione e nella tenuta di una democrazia. Eppure si accorsero quasi subito che non sarebbero stati capaci di sovvertire completamente quell'abominio che avevano conosciuto e patito nel Ventennio perché non sapevano trovare un'alternativa a quello che Massimo Pavarini, docente di Diritto penitenziario all'università di Bologna, definisce la «cultura patibolare». Una cultura da cui non è esente nemmeno la sinistra marxista.
Professore, nel giorno della Seconda marcia radicale per l'amnistia, la libertà e la giustizia,   non a caso legata al 25 aprile, ci spiega perché nella democrazia moderna le carceri non si sono evolute poi così tanto da quelle di regime?
Nel marzo 1949 la rivista Il Ponte diretta da Pietro Calamandrei dedicò il numero tre alle memorie dei grandi della Resistenza: c'erano Calamandrei, Calo Levi, Riccardo Bauer, Vittorio Foa, e poi Ghisu, Spinelli, Pajetta, Salvemini, Parri, Ernesto Rossi, Adolfo Banfi, insomma una bella compagnia di persone che erano passate per il carcere durante il Ventennio. Rileggendo quel numero si notano un paio di cose: tutti riconoscono che il carcere di allora non era poi così diverso da quello fascista che avevano conosciuto. Tutti ricordano di aver giurato a loro stessi, quando erano detenuti, che semmai un giorno avessero ricoperto ruoli di potere avrebbero fatto qualsiasi cosa per cancellare quella vergogna. E però tutti sono costretti a riconoscere - nel '49 - di non aver fatto ancora nulla. C'era in quell'élite intellettuale e politica già allora la consapevolezza di non avere idee alternative. È vero, eravamo solo all'inizio della democrazia, anche se l'articolo 27 della Costituzione c'era già, ma tra una sinistra che sognava ancora i campi di lavoro sovietici e i fautori di un riformismo asfittico, molto distante da quello d'ispirazione anglosassone, c'era una totale mancanza di cultura giuridica. In sostanza, si delineava una situazione paradossale: pur considerando quella pena inaccettabile e scandalosa, non riuscivano a uscire dalla cultura della pena.
Si poteva migliorare il carcere ma non sovvertirlo...
Secondo me questa è una cosa su cui non abbiamo mai riflettuto abbastanza e che segnerà poi definitivamente la nostra storia, il pensiero progressista e in particolar modo quello marxista: proviamo orrore rispetto a una penalità che non recupera, non integra, ma esclude. Però non vogliamo ammettere che non troviamo alternativa a quella che io chiamo una cultura patibolare, che non può avere anticorpi rispetto alla penalità. Il fatto che, come spesso succede, i portatori di questa cultura patibolare vorrebbero far subire la pena ad altri e non ai propri - magari ai padroni e ai capitalisti per le loro ignominie e non al proletariato - non cambia nulla. E il problema è questo: noi non ci muoviamo da questa cultura patibolare che al reato contrappone la pena. Perfino la sinistra l'ha assorbita, perché la cultura marxista l'ha ereditata dall'idealismo.
Da cosa dovremmo liberarci?
Dall'idea che dare sofferenza possa avere anche una funzione positiva, purificatrice. Dalla coincidenza di significato tra sofferenza e punizione. Certo, è una cultura che ha radici antichissime e che non appartiene solo all'occidente. Ovviamente poi la storia della penalità, che è intessuta dei valori simbolici del sacrificio e dell'espiazione, tipica del capro espiatorio, si trasforma negli anni, ma senza negare quell'origine. Però secondo me l'approdo a questa idea della pena come salario del peccato e della colpa si colloca nella creazione degli Stati. E ora si può dire che siamo fermi al mondo un po' rischiarato dall'analisi di René Girard. Certo si può fare un carcere più civile, con più luce, più biblioteche, lo si può fare alla svedese - e non si è fatto - ma comunque non ci si allontana dal principio che al delitto e al peccato si risponda con un'azione volta a determinare sofferenza.
E lo Stato ha il monopolio di questa sofferenza...
Beh, nel mito teomorfico, la Patria, lo Stato, il monarca sono concepiti ad immagine e somiglianza di Dio quindi lo stato ereditando il ruolo della sacralità detiene il regime monopolistico del castigo con finalità di espiazione. L'altro passaggio cruciale è che lo Stato nel suo tentativo di laicizzarsi, di spogliarsi da questo elemento di sacralità, vede la pena in una logica di difesa sociale come strumento di controllo di un problema. Quando si parla di criminalità, di recidiva, eccetera, si fa teoria della prevenzione. Sotto la bandiera della prevenzione, che sembrerebbe la teoria della laicizzazione, io credo che si siano consumati i più terribili delitti.
La pena che educa, come prevenzione del reato?
Che cos'è la prevenzione? Quello che oggi chiamiamo un approccio geopolitico alla questione: bisogna governare le masse, le moltitudini e per farlo bisogna utilizzare la risorsa repressiva. Non più per adempire alla funzione catartica del sacrale come nel passato ma, perché sia accettabile, per perseguire scopi di utilità. Ecco qual è la seconda grande sconfitta: gli scopi di utilità sociale, che soli legittimano la pena in una democrazia moderna, devono prevenire la criminalità, ridurre la recidiva. E sono tutti scopi fallimentari: la pena non ha mai mostrato di poter perseguire questi scopi, serve invece a creare distanza sociale, a verticalizzare i rapporti. È la "Gazzetta" della moralità media, serve a riaffermare i valori dei consociati: sono queste le funzioni materiali della penalità.
Qual è l'alternativa alla cultura della pena?
Intanto prendiamo atto che nelle nostre costituzioni non si racconta tutto questo. Non diciamo che la pena serve a creare distanze sociali, a verticalizzare i rapporti, a escludere e non a includere. Né diciamo che il carcere è pratica di inclusione sì, ma non nei confronti del soggetto a cui somministriamo la pena ma nei confronti della società, degli «onesti».
Solo che a questo punto la massa da escludere socialmente si è molto estesa e il carcere è diventata una pattumiera sociale... Perché si è arrivati a questo punto?
Perché lo stato moderno utilizza il carcere come strumento di regulation of the poor e non come strumento della penalità. La sua esigenza è distinguere tra povertà colpevoli e incolpevoli, tra povertà meritevole che lo stato sociale aiuta - le donne, i bambini, gli infermi - e una povertà colpevole che è teppaglia da stigmatizzare come diversa. Il carcere adempie a quella funzione, come diceva Focault, di trasformare una illegalità diffusa in una illegalità selezionata che appunto adempie alla funzione di capro espiatorio dell'intero sistema.
Eppure adesso sembra si sia adottata un'altra tattica: con l'introduzione di sempre nuove fattispecie di reato diventano illegali alcuni stili di vita diffusi, vedi il caso dell'uso delle droghe.
Ha preso proprio la norma più indicata di tutte: la funzione della guerra alla droga reaganiana è proprio quella di stigmatizzare una certa condotta giovanile metropolitana, inizialmente diffusa in strati sociali bassi. Perché è così importante tanto da farne una guerra? Perché la droga veicola un messaggio simbolico di non inclusione: di gente che vive nella cultura dello sballo, dell'edonismo, eversiva perché contraria all'etica del lavoro... è per questa sua forte carica simbolica che la si combatte tanto da diventare il motore di tutte le politiche criminali.
Colpire chi fa uso di stupefacenti significa salvaguardare il profitto?
È qui che viene riconfermata la funzione geopolitica di lotta alla povertà. La povertà va sempre riprodotta distinguendo ciò che è accettabile allo stato sociale come stato inclusivo e ciò che deve diventare un nemico. Il nemico va creato, riprodotto. Sicuramente la droga è il grande strumento della creazione del nemico interno, colui che non può essere incluso. È per eccellenza la legislazione che qui come in America ha creato un nemico interno. E per produrre handicap nuovi in questi soggetti già segnati da svantaggi, per determinare ancora più distanza sociale, per escluderli, si usa la pena. La cui funzione è proprio questa: la pena è una macchina formidabile di riproduzione enfatizzata di esclusione.

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Da il manifesto del 14 aprile

La crisi del carcere tra burocrati e magistrati
 Massimo Di Rienzo *
Per risolvere la crisi del sistema penitenziario c'è bisogno di una classe dirigente diversa dall'attuale coabitazione tra alti burocrati, appagati dallo status raggiunto, e magistrati a tempo
Ad affrontare la grave crisi del sistema penitenziario, notoriamente ormai caratterizzata dai problemi del sovraffollamento e della carenza delle risorse, umane e finanziarie, è chiamata una dirigenza penitenziaria ancora in via di formazione, dopo la riforma del 2005. Segnata da un percorso storico travagliato, oscillante fra spinte politico-legislative spesso di segno opposto, essa da circa sette anni nella gestione corrente viene assimilata,o meglio equiparata, ora a quello ora a questo riferimento professionale, limitata e tenuta sotto tutela dalla presenza costante, sebbene temporanea per i singoli interessati, di magistrati nei ruoli fondamentali dell'amministrazione.
La permanenza dei magistrati all'interno dell' organizzazione amministrativa in generale, ed in particolare in quella della giustizia, ha una lunga storia. Tuttavia intorno alla metà degli anni novanta, per chi viveva dal di dentro la cosa penitenziaria, era evidente che una sorta di tacito patto finiva per legare gli alti dirigenti ed i magistrati insediati nei gangli centrali dell'apparato carcerario. Ai primi, dopo le prime nomine e fino al 2011 selezionati con modalità che lasciavano progressivamente sempre meno spazio al merito ed alla competenza a vantaggio di patrocinii politici e di potere, veniva riservata la gestione dei provveditorati regionali, oltre alla conduzione di alcune direzioni generali e dell'Istituto superiore di studi penitenziari. I secondi, provenienti quasi esclusivamente da esperienze nelle Procure, progressivamente rafforzavano le proprie posizioni a livello centrale ampliando maggiormente la loro sfera di influenza con l'occupazione di posti ulteriori rispetto ai limiti dettati dalla legge, che circoscrive le loro competenze a quelle riconducibili a solo due delle cinque direzioni generali.
La coabitazione fra alti burocrati e magistrati nei posti di comando dell'Amministrazione penitenziaria finiva per svilire e relegare in secondo piano le problematiche che caratterizzavano le entità territoriali, gli istituti e gli uffici di esecuzione penale esterna; realtà che, invece, rivestendo un ruolo centrale nella concreta applicazione dell'esecuzione penale, avrebbero meritato ben altre attenzioni. Uno sguardo d'insieme a quella che è stata nell'ultimo scorcio la distribuzione del personale dirigente sul territorio rileva situazioni di estrema instabilità: istituti ed uffici locali lasciati per anni privi di direttori titolari, anche a causa di un mancato turn over, cui fa da contrappunto l' ingolfamento di funzionari dirigenti presso sia gli uffici centrali che le articolazioni regionali, con relativo svilimento e deprezzamento delle funzioni ivi svolte. Rappresentazione inquietante, che si sarebbe ancora maggiormente consolidata se si fosse realizzato il più recente proposito di redistribuzione delle risorse professionali dirigenziali, risalente a circa un anno addietro, che invece ha trovato una decisa opposizione e, allo stato, non se ne conosce il destino.
La presenza, quindi, ai livelli di alta responsabilità dell'Amministrazione penitenziaria, da un lato di burocrati ormai appagati dello status raggiunto, e quindi generalmente poco inclini all'esercizio di capacità critiche e di stimolo nei confronti dei referenti decisionali della politica carceraria; dall'altro di magistrati prestati a tempo determinato alla vita amministrativa ( la norma prevede una permanenza massima di cinque anni, molto spesso prorogata fino a dieci) sta rallentando la costruzione di un ceto dirigente all'altezza dei compiti, onerosi e problematici, che i tempi richiedono.
Il mantenimento delle posizioni di potere accennate non è estraneo allo stesso ritardo che si registra nella ripresa delle trattative per giungere alla conclusione del primo contratto di categoria: è palmare la tiepidezza che l' Amministrazione centrale fino ad oggi mostra nella vicenda. Ancora una volta si rileva come il problema cruciale risieda nella formazione dell'assetto in cui si sviluppano i processi di formazione della volontà dell'apparato di vertice, che fanno capo a soggetti per un verso scarsamente motivati, per l'altro carenti nel fondamentale rapporto di immedesimazione organica con l'ente cui sono temporaneamente distaccati.
Altre considerazioni, non proprio di confine, si pongono ancora sulla presenza di componenti di un ordine diverso nella segmentazione amministrativa. Senza scomodare principi di ordine costituzionale, senza cioè invocare la mai troppo celebrata tripartizione dei poteri alla base dello stato di diritto, non può non rilevarsi quanto la confusione fra matrici culturali, e relative vocazioni professionali, proiettate a finalità di diversa valenza istituzionale, finisca per ingenerare mescolanze perniciose. Quando, per esempio, a capo di un ufficio ispettivo e di controllo viene posto un - peraltro valente - magistrato che per diversi anni ha svolto le funzioni di Pubblico Ministero, è di tutta evidenza come le regole della vita amministrativa vengano inevitabilmente alterate. Per non dire di quanto sia forte la tentazione di ritenere che sia stato disposto un commissariamento di fatto di quell' ufficio, quando si constata che a capo della Direzione generale dei beni patrimoniali viene posto un magistrato, già anch'egli Pubblico Ministero di indubbio valore e cacciatore di mafiosi. E' quindi evidente come in casi del genere venga snaturata la finalità istituzionale cui gli uffici in questione sono preposti, per assumerne altre, di intuibile, ma taciuto, significato. Ecco come allora la stessa tripartizione dei poteri, che non si vorrebbe scomodare in tale corpore vili, finisca inevitabilmente per ridondare e per rilevarsi la sua inosservanza un pericoloso intralcio alla trasparenza dell'azione amministrativa, segmento non proprio trascurabile, della stessa vita democratica.
Un ulteriore problema si pone nella comprensione di tale caleidoscopio, quando si rilevano ben tre diverse specie nella dirigenza penitenziaria, ( per le specifiche contrattuali se ne potrebbero contare quattro) ciascuna portatrice di un suo background culturale. Quando cioè, nel giro di qualche anno, anche la Polizia Penitenziaria enumererà suoi componenti fra le leve dirigenziali, l'Amministrazione sarà dotata di almeno tre ranghi diversi di funzionari dirigenti. Si badi, non si tratta semplicemente di ruoli distinti che si dipartono dal medesimo ceppo. La situazione è ben più complicata. Sono infatti almeno tre i filoni di diversa origine e matrice, con tutto ciò che ne può conseguire in termini di disomogeneità nel significante degli interventi. La provenienza culturale, formativa e professionale infatti spazierà da quella della magistratura ( ordinaria ) a quella dei dirigenti penitenziari, (comprendendovi anche quelli di competenza pedagogica e contabile) a quella di un Corpo di polizia; con una aggiunta di eterogeneità di ben quattro regimi contrattuali - che vuol dire trattamento economico e status giuridico, e cioè: diritti, doveri, interessi, oneri, aspettative, progressioni - diversamente individuati e regolamentati.
Una dinamica virtuale fra queste quattro specie potrebbe risolversi positivamente a vantaggio di un arricchimento della vita amministrativa, con la presenza imprescindibile di una regia autorevole che sappia far convergere le differenze verso l' univocità del mandato istituzionale. Ma il compito è arduo ed irto di difficoltà.
Un quadro invece appena men che ottimale, caratterizzato semmai da debolezze in fatto di volontà di indirizzo o da scarsa chiarezza nelle finalità da perseguire, semmai con una leadership che non eccella in carisma e capacità risolutive, potrebbe invece contribuire a determinare un panorama di disorganicità, con incertezze ed incoerenze sia nella individuazione che nel perseguimento degli obiettivi.
Certamente la semplificazione della complessità delineata, al fine di rendere meno arduo il perseguimento degli intenti definiti in sede politica, richiede come obiettivo immediato la riduzione delle distanze fra le matrici di provenienza, almeno attraverso significativi momenti formativi comuni dei ranghi. Tempi diversi, ma non eludibili per chi si fosse dato una visione alta della funzione penitenziara, richiede la costruzione di un ceto dirigente compatto ed unitario: attraverso un percorso in cui non solo il substrato di valori condivisi, ma pure una comune, agita e penetrante conoscenza degli strumenti attuativi dell'esecuzione penale, così come modellata dalla norma, facciano da imprescindibile tessuto connettivo.
* Direttore Casa Circondariale di Lanciano

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Approvata in Senato in via definitiva il ddl a torto chiamato “svuota carceri“: la legge prevede che, nel caso in cui il detenuto debba scontare ancora 12 mesi per un reato considerato minore, questo periodo lo possa trascorrere agli arresti domiciliari; in caso di evasione dai domiciliari, la pena sarà inasprita, da uno a cinque anni. Il decreto legislativo è stato approvato dal Pdl, dalla Lega e dal Fli, si sono invece astenuti l’Udc, il Pd e l’Idv che ritengono questo provvedimento assolutamente inutile per risolvere il problema delle carceri. Secondo le prime stime interesserà meno di milla detenuti. Qui in pdf la legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale:
qui il pdf con la legge pubblicata sulla Gazzetta