mercoledì 30 novembre 2022

L'editoriale

 In stampa il nuovo numero di voci di dentro.  64 pagine sul carcere, sulle sofferenze, sui suicidi arrivati a quota 81 da inizio 2022, su Iran, su Russia e sul nostro giornalismo, giornalismo d’emergenza


di ANTONELLA LA MORGIA

Se esiste un giornalismo d’emergenza, tal quale la medicina che presta il soccorso urgente e interviene in situazioni critiche come i terremoti, è arrivato il momento di essere quel tipo di giornalisti. È arrivato il momento di presidiare, medicarne le ferite, salvandola dagli attacchi, il poco di professione militante che resta e che sempre molto ha da dire (salvo essere messa a tacere), stando a fianco di chi, se ha scelto di raccontare la verità offrendone le fonti, lo ha fatto fedele a un compito: informare è abbattere i segreti che avvolgono il potere, perché la trasparenza è il presupposto della democrazia.

Giornalisti militanti (una militanza corsara, si direbbe, che richiama Pasolini, peraltro questo è l’anno del centenario dalla sua nascita), è quasi un obbligo di fronte alla narcosi collettiva generata dalla gran parte dei media, che si preoccupa di semplificare, di nascondere invece che portare alla luce, e così offrono, sempre più spesso, una narrazione precostituita. A cos’altro è ridotta l’informazione oggi se non all’insostenibile leggerezza di notizie di tendenza, a racconto filtrato e infeudato, che deve rassicurare e non sollevare il dubbio. Perché è dal dubbio e dalla domanda di maggior verità – verità che destabilizzano, scuotono, inquietano - che trova una ragione il giornalismo d’inchiesta.

Ai lettori offriamo perciò il nostro tributo ad Assange. Julian Assange è ancora isolato, da12 anni è in carcere per avere tolto in nome di un’informazione libera e indipendente dall’opacità, dal silenzio, dalle molte ombre, un’enorme quantità di fatti (sulla guerra in Iraq, Afghanistan, su Al Qaida, sulle atrocità di Guantanamo, fatti che ci aiutano a capire il mondo di oggi, compresa la crisi del gas e l’Ucraina), reo di avere pubblicato documenti coperti dai segreti, militare, bancario, di stato, segreti a cui – secondo quanto deciso dai giudici che lo hanno condannato- non era suo diritto attentare, nemmeno in nome del dovere d’informare senza censure e senza rivelare le fonti.

Ce lo ricorda il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo, Stefano Pallotta, che nel suo articolo sottolinea chiaramente quanto la vicenda di Julian Assange evidenzi il confine tra conoscenza e ignoranza, tra democrazia e autocrazia. Assange è dunque simbolo della difesa del diritto di cronaca: una battaglia giusta, tanto più che nel nostro paese la forma attenuata del diritto al segreto professionale di cui godono i giornalisti è rivelatrice (e causa) della subalternità e dell’asservimento della professione al potere e al sistema politico.

E ce lo ricorda, inoltre, Stefania Maurizi, giornalista che ha conosciuto Assange, in un suo interessante lungo intervento ad un convegno, riportato da Eleonora Cianfrone, che merita di essere letto attentamente (malgrado qualche difficoltà che ha comportato la trascrizione), perché libertà di stampa e diritti umani vanno di pari passo. A noi di Voci di dentro i diritti umani stanno molto a cuore, così come il mestiere di giornalismo militante che come lo definisce Stefania Maurizi è solo uno: “quello d’inchiesta e d’approfondimento. Quello che indaga e dà fastidio.”

Un giornalismo “distratto e asservito al potere” che non insegna più e non illumina non fa che avvolgerci in un involucro, isolarci dalla realtà, in una nebbia dentro la quale non si scorgono le prospettive, i punti di vista, come spiega il nostro Direttore Francesco Lo Piccolo. Tutto è preordinato alla costruzione di una a-realtà, che è finzione e spettacolo, come nel celebre film The Truman show.

Ne è un esempio l’informazione sui suicidi in carcere. Il loro numero ha ampiamente superato le soglie già alte degli anni scorsi ( 61 nel 2020, 58 nel 2021) con un tasso attuale che è di 10,6 suicidi ogni 10.000 persone, 4 punti più alto di quello tra persone libere. Eppure la stampa è ripiegata su una narrazione che riporta tutto al libero arbitrio, alla scelta individuale di chi si è tolto la vita (a farlo sono in maggioranza giovani, che alla vita dovrebbero essere i più attaccati e invece non vedono la speranza), deviando da un’analisi seria sulle cause, o concause. Sui suicidi, di cui si sta perdendo il conto – è il titolo dell’articolo di Gian Marco Imperiale – bisogna squarciare il velo di Maya, perché quella a cui si assiste è la malattia dell’indifferenza. Un’indifferenza che uccide e che chiama a gran voce un impegno di ascolto, vicinanza, attenzione concreta al mondo del carcere. Non è un impegno solo di amore cristiano verso il prossimo ultimo fra gli ultimi, e di cui è esempio l’operato di David Maria Riboldi che ci testimonia la sua quotidianità tra tragedie e gratificazioni come Cappellano del carcere di Busto Arsizio. È invece un impegno di civiltà, che attiene al senso profondo del nostro ruolo nel sociale: prendere in esame i fattori di invivibilità del carcere, di cui il suicidio non è l’unico prodotto. Fattori d’invivibilità che Claudio Bottan esamina, fino alla conclusione che il carcere è solo un male di cui liberarci. A spiegarci questa scelta etica, laica, purtroppo desueta è Alessandro Margara, padre della Riforma dell’ordinamento penitenziario del 1986, di cui recuperiamo uno scritto quantomai attuale. 

È l’etica che trovate in questo numero: negli scritti dei detenuti, quelli delle detenute di Sbarre di zucchero, nel viaggio nella redazione del carcere d’Ivrea, nelle piazze che incontrano la prigione che ci racconta Francesca De Carolis, nelle fotografie del progetto Domani faccio la brava di Giampiero Corelli, nelle canzoni di Marco Chiavistrelli.


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