lunedì 14 agosto 2023

Carcere e suicidi. E lo Stato sta a guardare

 

di ANTONELLA LA MORGIA

(Vicedirettore Voci di dentro, membro del Direttivo dell'Associazione) 

Puoi essere preso a calci e botte. Avere lesioni e traumi che ti portano alla morte, mentre dovresti essere assistito e curato proprio in quanto è lo Stato a prenderti in carico, anche quando tutto questo avviene perché sei in carcere. Eppure diranno, come hanno detto di Stefano Cucchi, che sei morto per arresto cardiaco. E ci vogliono una sorella coraggiosa e anni di processi per stabilire che la tua morte è stata conseguenza di quelle botte.

Puoi rifiutare il cibo, perché in carcere lo sciopero della fame è l’unica forma di protesta non violenta che ti rimane, quando senti che proprio quello Stato che ti ha giudicato e punito, secondo Costituzione, non c’è. O non ce la fa ad esserci. Ad ascoltarti. Ad aiutarti. E invece dovrebbe accompagnarti in un percorso di consapevolezza e rieducazione, essere questo il senso della pena non contraria al senso di umanità, sempre secondo la Costituzione. Invece nel carcere trovi il deserto della tua solitudine, del tempo vuoto e fine a se stesso nella ripetizione dell’esistenza che si ferma come gli orologi che hanno le lancette immobili, fino a quando la libertà, scontata la pena, solo in pochi casi restituirà al mondo di fuori una persona che ha compreso il disvalore del fatto per cui è stata condannata. Nel 75 percento dei casi quella persona commetterà ancora reati e tornerà in carcere, sancendo così il fallimento dell’istituzione detentiva e dei suoi fini.

Puoi digiunare come Gandhi, Pannella e molti altri che scelgono questa pratica dimostrativa per opporsi a qualcosa o qualcuno, a leggi ingiuste o governi, per rivendicare diritti o protestare per la negazione degli stessi. In carcere se lo fai diranno, come hanno detto di Susan John, la detenuta morta alle Vallette di Torino dopo aver rifiutato il cibo e l’acqua e chiesto di vedere il proprio bambino, che ti sei lasciato morire. Non è dunque sciopero della fame, non è un atto “politico”, una disubbidienza civile e pacifica. È una tua seppur dolorosa scelta di non vivere più. E sul mistero insondabile di quella scelta, non vanno informati il Garante dei detenuti, i media, preventivamente allertati i parenti. Lo Stato non entra in quel mistero. Lo Stato è fermo, come gli orologi, aspetta la tua morte. E sta a guardare.

Come Susan John, pochi mesi fa anche nel carcere di Augusta (provincia di Siracusa) due detenuti, Liborio Davide Zerba e Victor Pereshchako, sono deceduti dopo settimane di sciopero della fame e la notizia è stata data solo dopo quindici giorni dal loro decesso. Nessuna informativa ai garanti.

Poi c’è Azzurra che si è impiccata in cella, sempre a Torino, nello stesso carcere dove Susan ha digiunato ed è morta e a distanza di sole 24 ore. Ad agosto, l’anno scorso, Donatela Hodo nel carcere Montorio di Verona, 27 anni, si era suicidata con il gas del fornello in uso per scaldare e cuocere il cibo. La sua morte, e le sue foto avevano fatto il giro dei social. L’eco delle parole del Magistrato di sorveglianza al suo funerale sul fallimento del sistema carcere pareva aver scosso qualcosa nel dibattito sullo stesso. Poi quell’eco sembra essersi spenta del tutto. A parlare di suicidi dietro le sbarre sono rimasti i soliti delle associazioni del settore.

Il problema dei suicidi dei detenuti, secondo l’attuale Ministro Nordio, dipende da due cause: una è il sovraffollamento, perenne mantra, ancorché dato numerico incontestabile (57.749 le persone recluse, con 6.464 in sovrannumero rispetto alla capienza totale degli istituti). L’altra causa è “il mistero insondabile della mente umana”.

Altri e vecchi limiti invalicabili, altri muri che la nostra memoria militare conserva, separeranno il carcere del futuro dal resto della società, che il carcere deve continuare a non vederlo. Anche a non considerarlo tra le priorità. Secondo Nordio, sono da recuperare le vecchie caserme dismesse, dove i soggetti socialmente meno pericolosi tra sport e lavoro all’aperto, avrebbero da costruirsi quella “speranza” per tornare ad essere sani, forti ed utili alla società da cui sono stati tenuti lontani. E che domani potrà riaccoglierli, obbedienti e disciplinati come soldati. Che importa che non ci siano spazi per la scuola (si leggano le cifre sul livello d’istruzione dei detenuti per farsi un’idea), il teatro, la cultura, biblioteche e quanto faticosamente oggi avviene grazie a direttori illuminati e un volontariato che investe sul capitale umano. Che non è solo corpo da rinvigorire e mani operaie. E sappiamo a quali modelli, che sono stati parte di un’educazione di regime, questa logica si ispira.

Una volta tanto anche la polizia penitenziaria è perplessa sulla ricetta del Guardasigilli. Invoca l’aumento di personale ma anche una formazione adeguata, perché il carcere, oltre che in peggio (strutture, sovraffollamento) è cambiato nelle caratteristiche della popolazione detenuta: stranieri, soggetti con problemi psichiatrici, dipendenza da sostanze, giovani con disturbi comportamentali.

Il carcere della speranza, che la speranza non uccide e riabilita nella volontà di vivere l’oggi per il domani, era già prefigurato nella Riforma dell’Ordinamento Penitenziario della vecchia Legge 354/1975, con al centro la persona reclusa e i suoi diritti (alla famiglia e agli affetti, alle relazioni sociali, al lavoro, alla salute, alla cultura e istruzione, all’attività fisica). A quel che andava migliorato dopo i molti anni trascorsi da questa riforma ci hanno pensato giuristi, tecnici, le circolari, gli Stati Generali dell’Esecuzione penale, le Relazioni del Garante Nazionale e la Commissione presieduta dal prof. Ruotolo che ha lavorato a dare indicazioni sulle criticità esistenti sotto la Ministra Cartabia. Appena un’era fa, prima di Nordio.

Siamo sempre scettici sulla costruzione di nuove carceri, come soluzione al sovraffollamento. È una misura strutturale che dovrebbe affiancarsi ad altre di natura tecnico-giuridica o di organico amministrativo: ampliamento delle figure, enti sociali, operatori per l’attuazione delle misure alternative, modifiche alle previsioni edittali di alcune fattispecie penali, formazione, aumento di psicologi, mediatori linguistici, funzionari giuridico-pedagogici, insegnanti e medici nelle carceri, potenziamento e diverso riconoscimento del ruolo del volontariato e terzo settore nelle attività trattamentali.

All’indomani dei vergognosi fatti di Santa Maria Capua Vetere, Mario Draghi, in visita come Nordio al carcere teatro dei pestaggi ai detenuti della sezione Nilo da parte di agenti (alcuni oggi sono indagati per reato di tortura), aveva dato per certa la realizzazione di otto nuovi padiglioni grazie ai fondi del PNRR. Vedremo se questi fondi saranno utilizzati e quanto costerà (ammesso che serva) riaprire le caserme. Sì, lo chiederemo a Giorgetti, come ha detto Nordio. Il resto dei problemi farà parte del “mistero insondabile della mente umana”.

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