sabato 1 settembre 2012

Ricordo di Carlo Maria Martini

Il comportamento delinquenziale e malavitoso può essere paragonato a una malattia: è una deformazione morale, causata spesso da ignoranza, da mancanza di realismo, da irresponsabilità, asocialità, istinti negativi, da condizioni abbandoniche e miserabili, da cattiva educazione; può essere curata e guarita.
Qui un passaggio dal suo libro "Non è giustizia. La colpa, il carcere, la parola di Dio”:
(…) Il recupero dell’uomo deviante è possibile quando vengono accettate alcune premesse. Ne sottolineo quattro: - La persona umana è il massimo valore a motivo della sua intelligenza e libera volontà, dello spirito immortale che la anima e del destino che l’attende. La sua dignità non può essere svalorizzata, snaturata o alienata nemmeno dal peggior male che l’uomo, singolo o associato, possa compiere.
L’errore indebolisce e deturpa sì la personalità dell’individuo, ma non la nega, non può distruggerla, né declassarla al regno animale, inferiore all’umano: il delinquente resta sempre “uomo”. Le leggi e le istituzioni penali di una società civile e democratica hanno senso se lo salvano, se operano in funzione dell’affermazione e sviluppo della dignità di ogni singola persona. Essa resta sempre un grande bene, indipendentemente dalle sue qualità, efficienza e merito. - Ogni persona è parte vitale e solidale della nostra comunità, anche quando viene colpita da malattia, fisica o morale; resta fratello o sorella dell’unica famiglia umana; distaccarla dal corpo sociale, disconoscerla, emarginarla, violentarla sono azioni che non favoriscono il bene comune, ma lo feriscono almeno quanto lo stesso reato. - Non esistono persone soltanto negative, tutte e sempre malvagie, identificabili nel reato; in ognuna c’è del frumento buono mescolato alla zizzania, come nel campo evangelico; le capacità del bene e del male nella persona umana convivono. L’uomo che sbaglia conserva sempre alcuni diritti-doveri fondamentali; glieli riconosce anche la legge del 26 luglio 1975, n. 354, all’articolo 4; tra questi il diritto-dovere di correggersi e risocializzarsi. La storia ci insegna che anche dall’errore può nascere un bene insperato, un’esperienza utile a tutti. Il reato è sintomo di un disagio profondo, interiore, che produce violenza, ingiustizia, criminalità. Il comportamento delinquenziale e malavitoso può essere paragonato a una malattia: è una deformazione morale, causata spesso da ignoranza, da mancanza di realismo, da irresponsabilità, asocialità, istinti negativi, da condizioni abbandoniche e miserabili, da cattiva educazione; può essere curata e guarita. - All’uomo in errore non dev’essere proposta unicamente la sanzione. Va quindi superata la cieca fiducia nella pena retributiva, meccanica, come unica forza capace di migliorare i comportamenti del delinquente. Non di rado si constata la sua inefficacia e anche la sua azione devastante. Alla base del nuovo modo di concepire la pena e la sua esecuzione dev’essere posta la riconciliazione come proposta di partenza e traguardo d’arrivo del trattamento rieducativo. L’antisociale può essere aiutato ad abbandonare una vita sbagliata, a rientrare nella realtà sociale e ad accettare con lealtà e senza strumentalizzazioni l’osservanza delle leggi soltanto in un clima di rispetto della sua persona e di disponibilità nei suoi confronti, e non nell’esecuzione materiale di una pena coercitiva e mortificante. (…) (da “Non è giustizia. La colpa, il carcere, la parola di Dio”, di Carlo Maria Martini)

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