sabato 8 settembre 2012

150 tavor per non tirare a campare


testo di Francesco Lo Piccolo  

Chissà quante volte si è sentito dire “fatti la galera, non  rompere”. Dopo due anni di carcere per una serie di truffe, senza più speranze e  illusioni, con un fine pena molto lontano negli anni, il mio amico D.S., detenuto a Vasto, ha inghiottito 150 pillole tra Tavor e altri farmaci. Una scorpacciata di tranquillanti  per farla finita una volta per tutte, per non tirare a campare, per smettere di campare in una cella, in un posto di merda, senza futuro. D.S. per fortuna si è salvato, e dopo due giorni di incoscienza, ha riaperto gli occhi. E’ intubato e non può parlare, ma è vivo.
  
Gli ho scritto una lettera ed è stato molto difficile perché se prima quando interveniva e partecipava ai nostri laboratori di scrittura spesso mi metteva angoscia, adesso D.S. col suo gesto mi ha letteralmente mandato in crisi. Perché indirettamente mi ha detto che quello che faccio, quello che fa Voci di dentro, non basta. Certo spesso il nostro operare come volontari mostra e dà speranze a gente senza nemmeno i sogni, ma in  realtà troppe volte illude. A dire il vero non sempre l’illusione è negativa, anzi spesso è una molla capace di vincere paure e di creare desideri, insomma fa andare avanti. Ma per chi vive 24 ore su 24 dentro una cella, la disintegrazione fisica e psicologica è tale che la molla scatta al contrario, e l'illusione-suggestione che in molti casi può guarire, lì dentro invece poco a poco ti strozza e ti uccide. Qualche cosa abbiamo fatto, anzi in alcuni casi molto; per alcuni detenuti siamo anche riusciti a costruire e ricostruire un percorso di vita fatto di studi e anche di lavoro, ma sono gocce nel mare. Ed è un mare in burrasca quello delle carceri, un mare in tempesta dove la pena, così come ora è, non ha alcun senso rieducativo, è inutilmente coercitiva e mortificante, mette insieme malati e sani, distrugge dignità, e toglie vite umane. Il fatto è che D.S. ha messo a nudo un mio nervo scoperto: il suo gesto- il suo per fortuna non riuscito suicidio e quello di tanti altri invece riusciti-  mostra la realtà carceraria per quello che è: in troppi casi un posto sbagliato, una costruzione antiquata e barbara. La mia lettera inviata a D.S. chiudeva così: "[…] ma, caro amico, arrendersi non serve, tirare la spugna ancora meno. Siamo in ballo e bisogna ballare perché noi sappiamo bene quello che va fatto affinché la vita, anche quella dentro una cella, non sia un tirare a campare e affinché siano altri e non noi gli uomini della resa, affinché siano quelli che pensano “fatti la galera” coloro che devono rimangiarsi le loro convinzioni…[…] dammi una mano a vincere, per me, per te, per tutte quelle persone che spesso finiscono in carcere, come ha sostenuto C. M. Martini, per ignoranza, mancanza di realismo, irresponsabilità, asocialità, istinti negativi, condizioni di abbandono, cattiva educazione. Insomma non sempre per loro colpa. L’altro giorno quando sono venuto a trovarti con Mascia ti ho lasciato una frase, “un abbraccio” ho scritto sulla copertina di Voci di dentro. L’ho lasciata a un agente che era di guardia alla tua stanza d’ospedale. Una brava persona. Anche per lui, per gente come lui, io non  voglio mollare”.

1 commento:

  1. A volte ci si guarda intorno ed inevitabilmente ci si chiede se valga la pena essere dove si è....ma credo che questo succeda in carcere come in ospedale come in ogni luogo di sofferenza.
    A volte tocca anche chiedersi cosa sarebbe se non ci fossimo...e concludere che non sarebbe meglio. Io credo che il moltiplicarsi delle gocce in un mare che (oggi come ieri) appare inevitabile, sia l'unica speranza.
    'Un imprevisto è la sola speranza' diceva Montale, e non c'è nulla di più imprevedibile di un uomo che dà la sua vita per un'opera buona.
    Annamaria R.

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