testo di Francesco Lo Piccolo
Chissà quante volte si è sentito dire “fatti la
galera, non rompere”. Dopo due anni di carcere per una serie di truffe,
senza più speranze e illusioni, con un fine pena molto lontano negli
anni, il mio amico D.S., detenuto a Vasto, ha inghiottito 150 pillole tra
Tavor e altri farmaci. Una scorpacciata di tranquillanti per farla finita
una volta per tutte, per non tirare a campare, per smettere di campare in
una cella, in un posto di merda, senza futuro. D.S. per fortuna si è
salvato, e dopo due giorni di incoscienza, ha riaperto gli occhi. E’ intubato e
non può parlare, ma è vivo.
Gli ho scritto una lettera ed è stato molto difficile
perché se prima quando interveniva e partecipava ai nostri laboratori di
scrittura spesso mi metteva angoscia, adesso D.S. col suo gesto mi ha
letteralmente mandato in crisi. Perché indirettamente mi ha detto che quello
che faccio, quello che fa Voci di dentro, non basta. Certo spesso il nostro
operare come volontari mostra e dà speranze a gente senza nemmeno i sogni, ma
in realtà troppe volte illude. A dire il vero non sempre l’illusione è
negativa, anzi spesso è una molla capace di vincere paure e di creare desideri,
insomma fa andare avanti. Ma per chi vive 24 ore su 24 dentro una cella, la disintegrazione
fisica e psicologica è tale che la molla scatta al contrario, e l'illusione-suggestione che in molti casi può guarire, lì dentro invece poco a poco ti strozza e ti uccide.
Qualche cosa abbiamo fatto, anzi in alcuni casi molto; per alcuni detenuti siamo
anche riusciti a costruire e ricostruire un percorso di vita fatto di studi e
anche di lavoro, ma sono gocce nel mare. Ed è un mare in burrasca quello delle
carceri, un mare in tempesta dove la pena, così come ora è, non ha alcun senso rieducativo, è
inutilmente coercitiva e mortificante, mette insieme malati e sani, distrugge
dignità, e toglie vite umane. Il fatto è che D.S. ha messo a nudo un mio nervo
scoperto: il suo gesto- il suo per fortuna non riuscito suicidio e quello di
tanti altri invece riusciti- mostra la realtà carceraria per quello che
è: in troppi casi un posto sbagliato, una costruzione antiquata e barbara. La mia lettera
inviata a D.S. chiudeva così: "[…] ma, caro amico, arrendersi non serve,
tirare la spugna ancora meno. Siamo in ballo e bisogna ballare perché noi
sappiamo bene quello che va fatto affinché la vita, anche quella dentro una
cella, non sia un tirare a campare e affinché siano altri e non noi gli
uomini della resa, affinché siano quelli che pensano “fatti la galera” coloro che
devono rimangiarsi le loro convinzioni…[…] dammi una mano a vincere, per me,
per te, per tutte quelle persone che spesso finiscono in carcere, come ha
sostenuto C. M. Martini, per ignoranza, mancanza di realismo, irresponsabilità,
asocialità, istinti negativi, condizioni di abbandono, cattiva educazione.
Insomma non sempre per loro colpa. L’altro giorno quando sono venuto a trovarti
con Mascia ti ho lasciato una frase, “un abbraccio” ho scritto sulla copertina
di Voci di dentro. L’ho lasciata a un agente che era di guardia alla tua stanza
d’ospedale. Una brava persona. Anche per lui, per gente come lui, io non
voglio mollare”.
A volte ci si guarda intorno ed inevitabilmente ci si chiede se valga la pena essere dove si è....ma credo che questo succeda in carcere come in ospedale come in ogni luogo di sofferenza.
RispondiEliminaA volte tocca anche chiedersi cosa sarebbe se non ci fossimo...e concludere che non sarebbe meglio. Io credo che il moltiplicarsi delle gocce in un mare che (oggi come ieri) appare inevitabile, sia l'unica speranza.
'Un imprevisto è la sola speranza' diceva Montale, e non c'è nulla di più imprevedibile di un uomo che dà la sua vita per un'opera buona.
Annamaria R.