VINCENZO SCALIA
Professore associato in Sociologia della devianza - Università di Firenze
I fatti di Verona, con l’incriminazione di 5 poliziotti accusati di avere commesso abusi gravi nei confronti di alcuni migranti e senzatetto, rappresentano un barometro importante sullo stato di salute democratico degli apparati dello Stato, in particolare delle forze di polizia. Purtroppo, come già anticipatoci pochi giorni prima dal pestaggio subito dalla transgender brasiliana ad opera della polizia municipale milanese, le condizioni non sono certo le migliori. In particolare, questi fatti, ci suggeriscono due ordini di riflessioni.
In primo luogo, malgrado le tragedie di Aldrovandi, Magherini, Cucchi, Uva, Bianzino, Giuliani e tanti altri, malgrado l’accresciuta sensibilità da parte dell’opinione pubblica rispetto a questo tema, le forze italiane di polizia non sembrano avere intenzione di invertire la rotta. Da un lato, è vero che un cambio repentino, o nel breve termine, di rotta, risulta difficile alla luce del fatto che una serie di rappresentazioni, codificazioni, modalità operative e consuetudini sedimentate da un secolo e mezzo, trasmesse dalle vecchie alle nuove leve, non svanisce rapidamente. Dall’altro lato però, bisogna registrare l’inerzia sia dei vertici delle forze di polizia, sia da parte della sfera politica, a promuovere riforme nel contesto del reclutamento e della formazione, ovvero quelle misure necessarie a fare in modo che la polizia sia al passo coi tempi, ovvero con una società sempre più complessa e multiculturale. Le ragioni di questa inerzia li comprendiamo benissimo: si tratterebbe di scuotere e rimescolare equilibri di potere consolidati all’interno delle forze di polizia. Quanto al mondo politico, si tratterebbe di affrontare un nervo scoperto della società italiana contemporanea.
Legge e ordine, negli ultimi trent’anni, hanno costituito, a destra e a sinistra, la cifra del consenso politico. Un’inversione di tendenza, per amministratori locali, deputati, senatori, ministri, equivarrebbe a rinnegare quanto alcuni di loro predicano e mettono in atto da trent’anni, oltre a comportare lo sforzo di pensare e di agire in modalità nuove, opposte a quelle adottate fino ad ora. Se così stanno le cose, il caso di Verona, temiamo, rischia di non essere l’ultimo.
La seconda riflessione che ci sentiamo di fare, riguarda la ricerca di soluzioni possibili per arginare questa deriva. Secondo molti operatori e osservatori, la mera esistenza del reato di tortura, rappresenterebbe già di per sé una misura sufficiente a fare fronti a questi casi. Pur riconoscendo che l’approvazione e l’implementazione di questa legge costituisca di per sé un notevole passo avanti, e che la sua abolizione, che rappresenta uno degli obiettivi del prossimo governo, porrebbe un problema di tenuta democratica, riteniamo che non si tratti di una misura sufficiente. Per suffragare le nostre ragioni, bisogna partire dal problema della trasparenza. Gli abusi di polizia, nella maggior parte dei casi, divengono noti in tre maniere: la prima è quella del conflitto interno alle forze di polizia, che permette di fare trapelare informazioni relative a pratiche degradanti e inumane, come è avvenuto nel caso Cucchi. La seconda è quella dei video girati casualmente da avventori la cui attenzione viene catturata da fatti eclatanti, come nel caso del pestaggio di Milano.
La terza è quella dell’indagine della magistratura su altre fattispecie di reato, che poi portano a seguire la pista degli abusi, come nel caso di Verona. Si tratta quindi di traiettorie casuali, che risentono della mancanza di accountability , ovvero di responsabilità davanti al pubblico, delle forze di polizia. Questo è un passaggio chiave, perché la presenza di meccanismi di controllo che prevedano la possibilità di rivalersi per i cittadini abusati, contribuirebbero ad aumentare presso le forze di polizia la consapevolezza di non essere al di sopra della legge. L’istituzione di una commissione indipendente, dotata di ampi poteri ispettivi, sul modello dell’Independent Office for Police Conduct (IOPC) inglese, svolgerebbe probabilmente una funzione preventiva, nel senso che ridurrebbe la possibilità che le forze di polizia commettano abusi e, innescando un meccanismo di trasparenza che prevede la raccolta di prove, agevolerebbe anche il funzionamento della legge contro la tortura. Che, altrimenti, rischierebbe di rimanere confinato all’ambito repressivo, da cui il securitarismo che causa gli abusi di polizia, in questi anni, ha attinto a piene mani. Una riflessione, su questo, andrebbe fatta.
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