Vitto e sopravvitto
di CLAUDIO TUCCI
Foto di Serena Caputo, dalla mostra fotografica "Come sabbia sotto al tappeto" reportage della Camera penale di Pisa.
Latte allungato
con acqua, carne andata a male, un litro di olio per 80 detenuti. Questo è ciò
che è emerso dalle testimonianze della Food Services, l’azienda che, in piena
emergenza covid, ha gestito la cucina del carcere di Chieti nei mesi di
febbraio e marzo del 2020. (Ne abbiamo
parlato nel numero della nostra rivista del mese di luglio).
Dopo aver
ascoltato le parole dell’imprenditrice Angela De Massis e del capo-cuoco
Stefano Di Febo, quella che si presentava davanti agli occhi era l’immagine terribile di uomini e donne costretti ad accettare una alimentazione
scarsa e di bassa qualità. Ma lo stupore iniziale nel conoscere una situazione
simile è andato via via diminuendo per fare spazio all’incredulità di un
ennesimo e italianissimo “segreto di Pulcinella”: il vitto e il sopravvitto
all’interno del sistema carcere.
Come si mangia,
quindi, nell’inferno dei vivi? Saranno proprio detenuti (ed ex) a raccontarlo,
a farci entrare all’interno di uno dei momenti più importanti e delicati della
vita detentiva, a descriverci, senza risparmiare i dettagli più crudi e
ripugnanti, la realtà delle cucine, del carrello e di tutto ciò che comprende l’alimentazione
del carcerato. Ci sarà il parere di Stefano Anastasia, Garante dei detenuti
della Regione Lazio, una delle prime voci a sollevarsi per denunciare una
situazione che la politica e la classe dirigente ha sempre snobbato.
Prima però, è
necessario inquadrare il problema, spiegare il funzionamento e le dinamiche del
vitto e del sopravvitto. Ai detenuti e internati è assicurata un’alimentazione
sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al
lavoro, al clima: così è stabilito dall'articolo 9 della legge sull’ordinamento
penitenziario (L. 354 del 1975). Un semplice principio, di facile
interpretazione e applicazione. Eppure, la realtà appare molto più complessa e
problematica. Per comprenderla basterebbe leggere la recente pronuncia della
Corte dei Conti del Lazio, la quale ha delineato profili di illegittimità nella
procedura di gara per l’affidamento del servizio.
Foto dalla mostra fotografica "Come sabbia sotto al tappeto" reportage della Camera penale di Pisa
Ma cerchiamo di
capire meglio: per vitto (a carico dello Stato) si intende quello che
comunemente all’interno degli istituti viene chiamato carrello, ovvero i pasti
giornalmente distribuiti e che tutti i detenuti hanno diritto a ricevere,
poiché è un servizio compreso nella spesa di mantenimento che ogni recluso deve
pagare di tasca propria. Qui, si sta parlando di alimenti preparati e
distribuiti la maggior parte delle volte dagli stessi detenuti, i quali hanno,
quindi, la possibilità di lavorare all’interno della cucina oppure di far parte
a turno, tramite sorteggio, della commissione controllo sulle derrate che quotidianamente
arrivano negli istituti. Di questi aspetti, lavoro e commissione se ne parlerà
più avanti, attraverso le testimonianze dei detenuti stessi.
Il servizio,
infine, viene affidato ad una ditta esterna con una procedura di gara ad
evidenza pubblica, con la quale per prassi è automaticamente affidato anche il
servizio di sopravvitto. Con quest’ultimo si intendono i prodotti che ciascun
detenuto può acquistare presso gli empori interni alla struttura.
«Avevano ragione
i detenuti, hanno torto quelle istituzioni preposte al controllo che hanno
avallato queste irregolarità. Azzerare tutto e ripartire con criteri seri e
bandi di gara alla luce del sole», queste sono state le prime parole di
Gabriella Stramaccioni che segue questa vicenda fin da quando ha assunto il
ruolo di Garante dei detenuti di Roma. Ebbene sì, hanno ragione i detenuti
quando notano il cattivo colore di una carne, il poco olio da suddividere nei
pasti e i prezzi esorbitanti dei prodotti del sopravvitto. Avevano ed hanno
ragione.
Prima di arrivare
alla recente pronuncia della Corte dei Conti, due considerazioni: la maggior
parte dei reclusi (se ne ha la possibilità) difficilmente accetta la dieta
predisposta dalle direzioni sia per le basse quantità sia per la scarsa
qualità. Così alcuni alimenti vengono inviati dalle famiglie, altri invece
vengono acquistati dal sopravvitto con le proprie risorse economiche. L’altra
considerazione, invece, è che un’altra grande parte dei detenuti non può
permettersi di comprare dallo spaccio interno, vivono una situazione di miseria
oppure non hanno famiglia che li aiuti all’esterno. E da queste due
considerazioni che negli ultimi mesi si è acceso un dibattito che ha poi
portato alla pronuncia della Corte dei Conti.
Essenzialmente, i
profili di illegittimità sono due: da un lato l’insufficienza del vitto e la
sua bassa qualità, dall’altro i costi esorbitanti del sopravvitto. Due facce
della stessa medaglia, in quanto è coinvolta la stessa impresa erogatrice per
entrambi i servizi.
A questo punto
entra in gioco quella che sarà la parola chiave con cui spiegare e descrivere
il problema alimentazione negli istituti penitenziari: il ribasso. Come riporta
in un articolo il quotidiano Il Dubbio: «Stando alla descrizione dell’appalto
ministeriale per il servizio di mantenimento dei detenuti e internati
attraverso l’approvvigionamento alimentare - denuncia il Garante della regione
Campania, Samuele Ciambriello - la colazione, il pranzo e la cena a ciascun
detenuto sono assegnati in base al costo più basso. L’aggiudicatario è tenuto
inoltre ad assicurare anche il servizio per il sopravvitto».
E così è stato:
se si guarda la procedura di gara del Provveditorato del Lazio, Abruzzo e
Molise, la ditta vincitrice, la “Ditta Domenico Ventura Srl”, ha strutturato la
propria offerta sul consegnare le derrate necessarie dei tre pasti giornalieri
al costo di 2.39 euro pro capite, con una diminuzione di oltre il 50% del
prezzo inizialmente previsto (di 5.70 euro). Insomma, con 2.39 euro si intende
garantire al singolo detenuto la colazione, il pranzo e la cena. E per riuscire
nell’impresa “a basso costo”, le ditte devono compensare riducendo la qualità
delle derrate e alzando i prezzi del sopravvitto a discapito dei detenuti.
Il garante Ciambrello
A settembre, il
Garante Samuele Ciambriello, ha raccolto varie testimonianze in merito ai costi
del sopravvitto e la relativa gestione: pasta, acqua, prodotti per l’igiene
personale, gas per i fornellini presenti nelle celle, acquistabili attraverso
l’emporio interno alla struttura, subiscono un aumento (giustificato da questa
logica del ribasso) che i detenuti continuano a lamentare. Ma la regola vuole
che i prezziari siano sempre aggiornati con l’offerta presente all’esterno del
carcere e che abbiano un sistema mensile di verifica dei prezzi. Ed è quando la
regola cade, che ci si trova a raccontare l’opposto, a descrivere situazioni e
contesti umani al limite del rispetto della dignità e dei diritti individuali.
In effetti, se si guarda il tariffario del mod. 72 e si osserva l'elenco dei
prodotti, ci si accorge subito che i detenuti non hanno molta varietà di
scelta, ma soprattutto che mancano generi con marche meno competitive, i cui
costi sono inferiori rispetto ad altri. Si arriva, dunque, alla soluzione
indicata essenzialmente dalla pronuncia della Corte dei Conti: separare i
servizi, costituendo due gare ad evidenza pubblica, una per il vitto ed una per
il sopravvitto, in modo che siano due le ditte erogatrici riuscendo così ad
abbandonare una volta per tutte la logica del ribasso. Ma non solo, poiché il
Garante nazionale, per scongiurare la questione legata alla varietà del
tariffario e il contenimento dei prezzi, ha evidenziato la necessità di
costituire il bando per il sopravvitto considerando la partecipazione della
GDO.
Una soluzione è
giunta alle orecchie della politica e dell’opinione pubblica. Il Ministro
Cartabia sembra avere intenzione di metterci le mani, di instaurare un serio
dibattito istituzionale sulla condizione del detenuto all’interno del carcere.
Qualcosa, almeno così pare, si sta muovendo. Ma, come afferma il Garante
Anastasia, la questione vitto e sopravvitto “è uno dei problemi più antichi del
sistema penitenziario”, a cui solo oggi si dà risalto politico e mediatico.
La Commissione cucina
Ma che
possibilità hanno le persone detenute? Possono controllare il vitto e il
sopravvitto? La risposta sta nella
“commissione cucina”, una commissione composta appunto dai detenuti che vengono
scelti a rotazione. Il loro compito è quello di controllare le derrate in
arrivo nell’istituto: qualità e quantità del vitto, le richieste del
sopravvitto e i generi relativi, sempre secondo il modello 72.
Ne parliamo con
Christian che è stato membro della commissione cucina e poi cuoco. “Una mattina
di ottobre dello scorso anno - ci dice- mi hanno chiamato per far parte della
commissione cucina. Chiamano a caso, ogni mese fanno turnare due detenuti per
far parte della commissione. E noi accettiamo soprattutto perché serve ad avere
una buona relazione, a migliorare la nostra la carta biografica personale: ecco
con questa prospettiva risulta più semplice giustificare e spiegare il perché
si innescano determinati meccanismi all’interno dell’istituto. Ho accettato, e
dal giorno dopo, tutte le mattine scendevo in cucina, firmavo un registro
consegnato dall’agente per confermare un controllo che in realtà non facevo.
Questo per 30 giorni. Tutto ciò vuol dire che se non viene una figura esterna o
una commissione cucina esterna per effettuare realmente il controllo, nessuno
verifica quello che poi finisce nei piatti”.
Cristian ricorda
perfettamente cosa era la cucina e cosa i suoi occhi vedevano ogni giorno:
“Dopo due mesi, avevo preso l’attestato HACCP e così in cucina ho fatto
l’inserviente, poi l’aiuto cuoco. Quando arrivava il cibo noi detenuti dovevamo
contarlo e controllarlo e dovevamo verificare qualità e quantità, la carne
spesso la mattina arrivava di un brutto colore, si andava dalla guardia per
avvisare, ma nel caso in cui la ditta esterna non aveva più carne si doveva
mangiare quella arrivata e di bassa qualità. Nelle prime settimane di lavoro,
il nostro gruppo ha dovuto pulire cucina e magazzino lottando e uccidendo
dozzine di topi. Non potevamo usare colla per trappole perché ritenuta
pericolosa dalla direzione, quindi dovevamo inseguire i topi e dedicare meno
tempo alla cucina e alla sua manutenzione. Ma i topi andavano eliminati per il
rischio che una commissione esterna facesse un controllo. E qui viene il bello:
perché, in caso di evidenti problemi igienici e sanitari, le colpe quasi sempre
ricadono sui detenuti stessi. La commissione dei detenuti quindi esiste ma non
agisce, firma soltanto”. Cristian poi, leggendo la testimonianza di Claudio,
ricorda anche lui un particolare dove l’oggetto in questione è il pane: “A
proposito di pane...il sabato e la domenica ti mangi il pane del venerdì,
perché la domenica non arriva. Manco la domenica ti potevi mangia del pane
fresco...”.
E sul lavoro?
Cosa sappiamo dei detenuti e delle detenute che svolgono mansioni retribuite
nelle cucine e in generale nell’istituto?
Siamo riusciti ad
ottenere la busta paga di un carcerato che ha svolto 10 giorni di lavoro come
addetto alle pulizie. La mercede, al netto delle tasse, è di 134,39 euro dalla
quale vanno però detratte le spese di mantenimento (trattenute per quote
mantenimento). Quello che rimane, è la realtà salariale del detenuto: tolta la
quota di mantenimento restano 80,63 euro di retribuzione su 10 giorni
lavorativi. Sono poco più di 8 euro netti al giorno, numeri ben lontani dai
parametri del mercato del lavoro stabiliti nel contratto collettivo nazionale,
ma molto vicini a realtà misere e ingiustificate per una democrazia
occidentale.
Insomma, mercedi da metà ‘800, meno di 3 euro
per tre pasti giornalieri, prezzi del sopravvitto esorbitanti e con poca
varietà. Questa è la sintesi di una realtà che da almeno trent’anni non riceve
attenzione politica, mediatica e giuridica, se non fosse per il lavoro di enti
e associazioni. In merito sentiamo Mauro, anche lui detenuto per molti anni
nelle carceri italiane: “In realtà in alcuni istituti il cibo arriva anche in
abbondanza. Succede a Verbania, un carcere con 60 detenuti, dove ho lavorato
anche in cucina e ho fatto corsi. Oppure ad Alessandria, dove la cucina
funziona bene grazie ad una completa gestione da parte dei detenuti, senza
interferenze esterne o delle guardie. A Rebibbia invece la situazione è
completamente diversa e degradante, a meno che tu non abbia soldi”. Ma le
parole di Mauro toccano anche un altro aspetto, quello dei soldi, dei bilanci
degli istituti e il ruolo dell’economato: “Le persone che lavorano
all’economato sono un mistero. Eppure
sono loro a gestire i soldi dei detenuti per quanto riguarda le richieste del
sopravvitto. Poi c’è un altro aspetto, cioè che noi paghiamo la
merce prima di averla. E spesso accade che quello che hai chiesto non sempre
corrisponda alle nostre richieste. In tutta sincerità l’economato assume quasi
le sembianze di una banca che ha sotto controllo tutti i libretti di ogni
singolo detenuto...”.
Intervista a Stefano Anastasìa, Garante delle persone
private della libertà della Regione Lazio
Pasti scadenti e poco guadagno
ma le ditte si “rifanno” col sopravvitto
Dottor Anastasia,
da quanto tempo i detenuti denunciano le condizioni dell’alimentazione
all’interno del carcere e i prezzi esorbitanti del sopravvitto?
“Questo è uno dei
problemi più antichi del sistema penitenziario italiano. Mi occupo di
carcere da più di trent’anni e da sempre
questo problema è stato sollevato e da sempre le associazioni e gli enti che si
occupano dei detenuti hanno in qualche modo rimarcato il problema degli appalti
riguardanti il vitto e del sopravvitto. Si punta sostanzialmente, questo è poi
quello che viene messo in luce dalla recente pronuncia della Corte dei Conti, a
compensare un massimo ribasso con cui si determina l’affidamento del vitto con
la fornitura del servizio di sopravvitto. Quindi si offrono pasti scadenti
bilanciati dal fatto che poi le ditte partecipanti alla gara guadagnano su
quello che i detenuti comprano dallo spaccio interno. E questa è una cosa,
appunto, che io conosco da almeno trent’anni. Le racconto il caso più recente: un reclamo collettivo di
alcuni detenuti di Rebibbia, dei primi di agosto, fatto in seguito alla morte
di uno di loro, in cui gli stessi, almeno un centinaio di firmatari, lamentano
tra le altre cose la qualità del vitto e i costi del sopravvitto.
Esiste una figura
competente che abbia, diciamo il ruolo di esperto nutrizionista. E quindi, in
sostanza, chi decide la dieta, l’alimentazione dei detenuti?
No, a livello
nazionale non esiste. Dovrebbe essere determinato nel caso specifico in ciascun
contratto d’appalto: quando si stabilisce la gara ovviamente dovrebbero esserci
le caratteristiche dei prodotti oggetto dell’appalto e questa cosa deve essere
ben specificata. Questo è uno dei punti della raccomandazione che noi abbiamo
formulato all'amministrazione penitenziaria e al Provveditorato per il Lazio,
Abruzzo e Molise, che era quello interessato dalla decisione della Corte dei
Conti, per cui abbiamo previsto esplicitamente che nella definizione del
capitolato del servizio di vitto si acquisisca un parere obbligatorio e
vincolante di un tecnologo alimentare indipendente. Questo è il tema che dovrà
essere esplicitato nelle prossime gare d’appalto.
La pronuncia
della Corte dei Conti stabilisce inoltre che i servizi, per i futuri bandi,
vengano separati garantendo così due ditte erogatrici, una per il vitto ed una
per il sopravvitto. Ecco, come si è arrivati, oggi, a questa decisione?
Questo è il tema
principale. Ovvero l’offerta al massimo ribasso che il partecipante alla gara
perseguiva per ottenere l’appalto si compensava non solo con la scarsa qualità
e la scarsa quantità del vitto, ma anche nei prodotti che apparentemente
avevano una certo peso però poi all’esito della cottura lo stesso peso si vede
quasi estinguere, e questo mi è stato raccontato e non ho difficoltà a
crederlo. Come per esempio in certi insaccati o in certe salsicce che
all’interno hanno esclusivamente grasso e ovviamente una volta cotte perdono il
loro peso iniziale. Quindi questo è il nodo principale: questa scarsa qualità e
quantità del vitto era compensata da questo regime di monopolio nell’offerta
del sopravvitto, per cui la riduzione dei costi non consente alla ditta di
guadagnare abbastanza, perché quando si offrono 3 pasti al giorno a poco più di
2 euro, chi vince quell’appalto molto probabilmente lo vince in perdita. Di
certo non si guadagna dal solo vitto, un’azienda non è che partecipa alla gara
per beneficienza, lo fa per maturare il suo profitto. Di conseguenza si
massimizzano i guadagni dal sopravvitto, cioè sul fatto che i detenuti erano
tenuti a comprare da quella medesima azienda per mangiare qualcosa di dignitoso
a prezzi però maggiorati rispetto all’esterno.
Cosa ci dice del
controllo delle derrate con delle commissioni composte da detenuti estratti a
sorteggio e che, in un certo senso, non sono proprio funzionali al monitoraggio
della qualità del cibo?
Sì, devo dire che
questo accade nella maggior parte dei casi, ma devo anche ammettere il
contrario. Ad esempio, dalla mia esperienza di garante, ricordo di una denuncia
sulla qualità del vitto arrivata da Rebibbia penale anche prima dell’episodio
che raccontavo in precedenza. Una denuncia partita proprio da un detenuto parte
di questa commissione e che mi ha dettagliato tutti i rilievi da lui svolti sul
posto. La commissione che guarda il prodotto come arriva in istituto, può
controllare al massimo i pesi delle confezioni e l’aspetto delle merci. Solo
questo. È vero, però, che il mezzo del sorteggio non è un buon sistema poiché
servono persone capaci e motivate.
Siamo di fronte a
quello che viene identificato come un “segreto di Pulcinella”, un segreto che
in realtà non lo è, un qualcosa già di pubblico dominio nonostante i tentativi
di tenerlo nascosto. Ecco, secondo lei, perché solo oggi si è aperto un
dibattito politico, sociale, giuridico?
Il caso era
conosciuto da tempo agli addetti ai lavori, il problema è che non c’è mai stata
un’azione politica o giuridica. Il punto è che qui si sta parlando e si fa
riferimento ai mezzi e alle risorse delle amministrazioni penitenziarie, qui in
pratica stiamo parlando di bilancio. Io ricordo un altro caso storico e
altrettanto importante, che è stato quello della retribuzione dei detenuti. Per
legge la retribuzione deve essere parametrata a quella delle equivalenti
mansioni prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Invece la
retribuzione dei detenuti è stata per alcuni decenni ben lontana dai parametri
previsti dal CCNL: la giurisprudenza a partire dalla metà degli anni '90 ha
cominciato a rilevare questa discrepanza, ma le mercedi sono state adeguate con
il Ministro Orlando, quindi nel 2005, dopo qualche decennio di giurisprudenza
che segnalava questa incongruenza. Perché appunto si doveva intervenire sul
bilancio del Ministero della Giustizia, cioè ci sono capitoli di bilancio che
hanno a che fare con le mercedi, oppure con gli appalti di vitto, che devono
essere adeguati all’andamento dei costi delle materie prime e delle
retribuzioni. L’amministrazione resiste fin quando è possibile. Le faccio un
esempio: io per due anni, dal 2006 al 2008 sono stato capo della segreteria
dell’allora sottosegretario alla giustizia con la delega all'amministrazione
penitenziaria; ricordo di aver discusso con il direttore generale del bilancio
del DAP dell’epoca e gli chiesi: “se la giurisprudenza dice che devono essere
pagati seguendo i parametri dei contratti collettivi perché non adeguate le
mercedi visto che poi i detenuti vanno in giudizio e giustamente viene
riconosciuto l’adeguamento della mercede e quindi poi dovete pagare questo
adeguamento?”.
La risposta del
direttore è stata: “Per adeguare le mercedi noi abbiamo bisogno di più soldi
dal Ministero dell’Economia che deve assegnare i fondi necessari. Non ce li
assegnano? Allora noi continuiamo a dare le mercedi così, lontane dai parametri
di legge, i detenuti fanno ricorso e alla fine pagherà il Ministero
dell’Economia, mica paghiamo noi”.
E questo rende
chiaro come funziona il sistema.
Prezzi maggiorati e niente sconti
Così il cibo diventa un lusso
Cibo scadente e quantità al limite della
sussistenza. Come su quel treno lungo mille e una carrozza dove gli emarginati
vivono nell’ultimo vagone, ammassati gli uni sugli altri e senza luce, costretti a mangiare delle gommose barrette proteiche prodotte dagli scarti di
chi è in testa al treno.
Ne parliamo con
Claudio, 50 anni: “Sono stato in carcere per molto tempo e vi posso assicurare
che la cosa più vicina al cibo in carcere è la merda. Negli anni ho visto di
tutto. Tutti, sicuramente, ti parleranno almeno una volta dei topi, ospiti indiscussi
delle cucine. Ma fosse solo questo! Se parliamo di cibo, il discorso è
riassumibile in un ricordo che difficilmente potrei dimenticare: negli anni
‘90, trovai sulla carne dei timbri di 15
anni prima. In questi casi la soluzione era semplice, nonostante persino il
colore della carne urtava la bocca dello stomaco: c’era la guardia che senza
imbarazzo ti diceva E che vuoi fa, togli la cotenna e si può cucina’. Facile
no? Lo stesso però non si poteva fare quando nel pane trovavo la scagliola,
messa lì probabilmente per aumentarne il peso in modo da aggiustare il costo.
Se dal panificio, un chilo di pane sono 6-7 panini, in carcere diventano la
metà”.
E così il degrado
diventa abitudine e l’abitudine diventa una regola al quale puoi anche
sottrarti, ma a tue spese. La leva psicologica è questa: il cibo della
direzione è quello che è, vuoi mangiare di più e meglio? Paga, acquista e
consuma. Ovvero grazie al sopravvitto, il “servizio” che permette o costringe
(a seconda dei punti di vista) i detenuti a comprare pasta, pelati, carne che
abbia un colore naturale, pane, verdure e molto altro. Tutti prodotti che non
dovrebbero occupare spazio nelle richieste extra del carcerato. Sono generi
essenziali che il carcerato deve poter ricevere dal vitto, in modo da
utilizzare, ad esempio, le proprie risorse per accontentare desideri o piaceri
personali: un alimento particolare, un dolce, il caffè, le sigarette oppure
prodotti per l’igiene personale come shampoo, bagnoschiuma. Ma anche beni, come
giornali o libri, in grado di combattere la noia o di sentirsi in contatto con
il mondo esterno. Ma così non è e così il cibo (e non solo), all’interno del
carcere, diventa un lusso. L’alimentazione da diritto si trasforma in un
privilegio non richiesto.
“Ti posso
assicurare - continua Claudio - che la maggior parte delle proteste dei
detenuti avvengono a causa del cibo. Pensa al solo fatto che quasi in tutte le
carceri, o almeno in quelle dove sono stato io, non esiste la mensa o un luogo
dedicato esclusivamente al mangiare. Si resta in cella, nello stesso e solito
spazio dove la situazione è già quella che è: sovraffollamento, mancanza di
igiene…”.
Vengono alla
mente le parole del Garante dei detenuti
Anastasia che racconta proprio di questo, ovvero dell’assenza di un
luogo fisico come la mensa, un servizio che permetterebbe di superare annose
obiezioni che si fanno sul carcere e sui detenuti, oltre che salvaguardare
l’equilibrio psicofisico dell’individuo. Negli istituti, inoltre, è vietato
l’acquisto e il consumo di alcolici per vari motivi, tipo quello del baratto,
ma è possibile prendere psicofarmaci per combattere, ad esempio, problemi di
insonnia. Se ci fosse una mensa, l’alcol verrebbe limitato ai pasti (magari
solo a cena), non entrerebbe nelle celle, e al posto di psicofarmaci per
dormire, basterebbe un bicchiere di vino. Una banalità, vero, ma che sarebbe in
grado di migliorare e non di poco, la salute fisica e mentale dei carcerati.
Ancora Claudio:
“L’altra questione è la mancanza di trasparenza. Il detenuto ordina gli
alimenti e paga, ma sa ben poco della provenienza, della qualità e anche del
peso. Non ti spieghi del fatto che i costi sono quasi il doppio rispetto a
quelli reali, non ti spieghi perché le quantità spesso non corrispondono a quelle
ordinate o se accade ti fai il segno della croce sperando che il cibo non sia
stato toccato al fine di aumentarne il peso. L’unica conquista ottenuta? La
possibilità di avere una bilancia per il controllo. Accade però che sta
bilancia è usata dal detenuto responsabile del sopravvitto, e non ti dico i
meccanismi di ricatto che si innescano. Se qualcosa non torna nella pesata,
spesso il detenuto, per paura di un richiamo, non denuncia e, come dire, pesa
con gli occhi bendati”.
UNA DIETA NON
EQUILIBRATA
Il biologo
nutrizionista Giuseppe Labianca di Trani
ha esaminato le tabelle ministeriali per i generi alimentari. Ad una prima
osservazione ha detto: “La dieta sembra
abbastanza sproporzionata nei confronti dei carboidrati quindi c’è più
carboidrato rispetto alla proteina. Facendo una premessa che ovviamente queste
sono tabelle medie e quindi andrebbero valutate singolarmente le necessità
metaboliche di ognuno dei soggetti, vedo che hanno giornalmente sempre 300
grammi di pane e 300 grammi di pasta, mentre
la quota proteica fondamentalmente si riduce al latte mattutino e alla carne o
al pesce che orientativamente è tra i 120 e i 200 grammi, quando c’è perché in
realtà non c’è nemmeno tutti i giorni. Quindi secondo me non è una dieta
assolutamente bilanciata. Quanto alle verdure si dovrebbe sapere che tipo di
cottura viene fatta e che tipo di verdura è. Quindi se ad esempio è tutto
surgelato, di quella verdura ti prendi poco. Per quanto riguarda la porzione di
frutta, 450 grammi al giorno vanno benissimo, soprattutto se è di stagione cioè
non è frutta di serra o frutta importata. Comunque in generale è così anche per
altre mense: che siano mense ospedaliere
o mense di scuola tutte hanno grossi deficit”.
(C.T.)
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