giovedì 28 ottobre 2021

L'inchiesta: cosa si mangia in carcere

 

 Vitto e sopravvitto

di CLAUDIO TUCCI



Foto di Serena Caputo, dalla mostra fotografica "Come sabbia sotto al tappeto" reportage della Camera penale di Pisa.



Latte allungato con acqua, carne andata a male, un litro di olio per 80 detenuti. Questo è ciò che è emerso dalle testimonianze della Food Services, l’azienda che, in piena emergenza covid, ha gestito la cucina del carcere di Chieti nei mesi di febbraio e marzo del 2020.  (Ne abbiamo parlato nel numero della nostra rivista del mese di luglio).

 Dopo aver ascoltato le parole dell’imprenditrice Angela De Massis e del capo-cuoco Stefano Di Febo, quella che si presentava davanti agli occhi  era l’immagine terribile di uomini e  donne costretti ad accettare una alimentazione scarsa e di bassa qualità. Ma lo stupore iniziale nel conoscere una situazione simile è andato via via diminuendo per fare spazio all’incredulità di un ennesimo e italianissimo “segreto di Pulcinella”: il vitto e il sopravvitto all’interno del sistema carcere.

 Come si mangia, quindi, nell’inferno dei vivi? Saranno proprio detenuti (ed ex) a raccontarlo, a farci entrare all’interno di uno dei momenti più importanti e delicati della vita detentiva, a descriverci, senza risparmiare i dettagli più crudi e ripugnanti, la realtà delle cucine, del carrello e di tutto ciò che comprende l’alimentazione del carcerato. Ci sarà il parere di Stefano Anastasia, Garante dei detenuti della Regione Lazio, una delle prime voci a sollevarsi per denunciare una situazione che la politica e la classe dirigente ha sempre snobbato.


Prima però, è necessario inquadrare il problema, spiegare il funzionamento e le dinamiche del vitto e del sopravvitto. Ai detenuti e internati è assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, al clima: così è stabilito dall'articolo 9 della legge sull’ordinamento penitenziario (L. 354 del 1975). Un semplice principio, di facile interpretazione e applicazione. Eppure, la realtà appare molto più complessa e problematica. Per comprenderla basterebbe leggere la recente pronuncia della Corte dei Conti del Lazio, la quale ha delineato profili di illegittimità nella procedura di gara per l’affidamento del servizio.

Foto dalla mostra fotografica "Come sabbia sotto al tappeto" reportage della Camera penale di Pisa



Ma cerchiamo di capire meglio: per vitto (a carico dello Stato) si intende quello che comunemente all’interno degli istituti viene chiamato carrello, ovvero i pasti giornalmente distribuiti e che tutti i detenuti hanno diritto a ricevere, poiché è un servizio compreso nella spesa di mantenimento che ogni recluso deve pagare di tasca propria. Qui, si sta parlando di alimenti preparati e distribuiti la maggior parte delle volte dagli stessi detenuti, i quali hanno, quindi, la possibilità di lavorare all’interno della cucina oppure di far parte a turno, tramite sorteggio, della commissione controllo sulle derrate che quotidianamente arrivano negli istituti. Di questi aspetti, lavoro e commissione se ne parlerà più avanti, attraverso le testimonianze dei detenuti stessi.

 Il servizio, infine, viene affidato ad una ditta esterna con una procedura di gara ad evidenza pubblica, con la quale per prassi è automaticamente affidato anche il servizio di sopravvitto. Con quest’ultimo si intendono i prodotti che ciascun detenuto può acquistare presso gli empori interni alla struttura.



«Avevano ragione i detenuti, hanno torto quelle istituzioni preposte al controllo che hanno avallato queste irregolarità. Azzerare tutto e ripartire con criteri seri e bandi di gara alla luce del sole», queste sono state le prime parole di Gabriella Stramaccioni che segue questa vicenda fin da quando ha assunto il ruolo di Garante dei detenuti di Roma. Ebbene sì, hanno ragione i detenuti quando notano il cattivo colore di una carne, il poco olio da suddividere nei pasti e i prezzi esorbitanti dei prodotti del sopravvitto. Avevano ed hanno ragione.

 Prima di arrivare alla recente pronuncia della Corte dei Conti, due considerazioni: la maggior parte dei reclusi (se ne ha la possibilità) difficilmente accetta la dieta predisposta dalle direzioni sia per le basse quantità sia per la scarsa qualità. Così alcuni alimenti vengono inviati dalle famiglie, altri invece vengono acquistati dal sopravvitto con le proprie risorse economiche. L’altra considerazione, invece, è che un’altra grande parte dei detenuti non può permettersi di comprare dallo spaccio interno, vivono una situazione di miseria oppure non hanno famiglia che li aiuti all’esterno. E da queste due considerazioni che negli ultimi mesi si è acceso un dibattito che ha poi portato alla pronuncia della Corte dei Conti.

 Essenzialmente, i profili di illegittimità sono due: da un lato l’insufficienza del vitto e la sua bassa qualità, dall’altro i costi esorbitanti del sopravvitto. Due facce della stessa medaglia, in quanto è coinvolta la stessa impresa erogatrice per entrambi i servizi.

 A questo punto entra in gioco quella che sarà la parola chiave con cui spiegare e descrivere il problema alimentazione negli istituti penitenziari: il ribasso. Come riporta in un articolo il quotidiano Il Dubbio: «Stando alla descrizione dell’appalto ministeriale per il servizio di mantenimento dei detenuti e internati attraverso l’approvvigionamento alimentare - denuncia il Garante della regione Campania, Samuele Ciambriello - la colazione, il pranzo e la cena a ciascun detenuto sono assegnati in base al costo più basso. L’aggiudicatario è tenuto inoltre ad assicurare anche il servizio per il sopravvitto».

 

E così è stato: se si guarda la procedura di gara del Provveditorato del Lazio, Abruzzo e Molise, la ditta vincitrice, la “Ditta Domenico Ventura Srl”, ha strutturato la propria offerta sul consegnare le derrate necessarie dei tre pasti giornalieri al costo di 2.39 euro pro capite, con una diminuzione di oltre il 50% del prezzo inizialmente previsto (di 5.70 euro). Insomma, con 2.39 euro si intende garantire al singolo detenuto la colazione, il pranzo e la cena. E per riuscire nell’impresa “a basso costo”, le ditte devono compensare riducendo la qualità delle derrate e alzando i prezzi del sopravvitto a discapito dei detenuti.

  Il garante Ciambrello

A settembre, il Garante Samuele Ciambriello, ha raccolto varie testimonianze in merito ai costi del sopravvitto e la relativa gestione: pasta, acqua, prodotti per l’igiene personale, gas per i fornellini presenti nelle celle, acquistabili attraverso l’emporio interno alla struttura, subiscono un aumento (giustificato da questa logica del ribasso) che i detenuti continuano a lamentare. Ma la regola vuole che i prezziari siano sempre aggiornati con l’offerta presente all’esterno del carcere e che abbiano un sistema mensile di verifica dei prezzi. Ed è quando la regola cade, che ci si trova a raccontare l’opposto, a descrivere situazioni e contesti umani al limite del rispetto della dignità e dei diritti individuali. In effetti, se si guarda il tariffario del mod. 72 e si osserva l'elenco dei prodotti, ci si accorge subito che i detenuti non hanno molta varietà di scelta, ma soprattutto che mancano generi con marche meno competitive, i cui costi sono inferiori rispetto ad altri. Si arriva, dunque, alla soluzione indicata essenzialmente dalla pronuncia della Corte dei Conti: separare i servizi, costituendo due gare ad evidenza pubblica, una per il vitto ed una per il sopravvitto, in modo che siano due le ditte erogatrici riuscendo così ad abbandonare una volta per tutte la logica del ribasso. Ma non solo, poiché il Garante nazionale, per scongiurare la questione legata alla varietà del tariffario e il contenimento dei prezzi, ha evidenziato la necessità di costituire il bando per il sopravvitto considerando la partecipazione della GDO.

 

Una soluzione è giunta alle orecchie della politica e dell’opinione pubblica. Il Ministro Cartabia sembra avere intenzione di metterci le mani, di instaurare un serio dibattito istituzionale sulla condizione del detenuto all’interno del carcere. Qualcosa, almeno così pare, si sta muovendo. Ma, come afferma il Garante Anastasia, la questione vitto e sopravvitto “è uno dei problemi più antichi del sistema penitenziario”, a cui solo oggi si dà risalto politico e mediatico.


La Commissione cucina


Ma che possibilità hanno le persone detenute? Possono controllare il vitto e il sopravvitto?  La risposta sta nella “commissione cucina”, una commissione composta appunto dai detenuti che vengono scelti a rotazione. Il loro compito è quello di controllare le derrate in arrivo nell’istituto: qualità e quantità del vitto, le richieste del sopravvitto e i generi relativi, sempre secondo il modello 72.

Ne parliamo con Christian che è stato membro della commissione cucina e poi cuoco. “Una mattina di ottobre dello scorso anno - ci dice- mi hanno chiamato per far parte della commissione cucina. Chiamano a caso, ogni mese fanno turnare due detenuti per far parte della commissione. E noi accettiamo soprattutto perché serve ad avere una buona relazione, a migliorare la nostra la carta biografica personale: ecco con questa prospettiva risulta più semplice giustificare e spiegare il perché si innescano determinati meccanismi all’interno dell’istituto. Ho accettato, e dal giorno dopo, tutte le mattine scendevo in cucina, firmavo un registro consegnato dall’agente per confermare un controllo che in realtà non facevo. Questo per 30 giorni. Tutto ciò vuol dire che se non viene una figura esterna o una commissione cucina esterna per effettuare realmente il controllo, nessuno verifica quello che poi finisce nei piatti”.

 

Cristian ricorda perfettamente cosa era la cucina e cosa i suoi occhi vedevano ogni giorno: “Dopo due mesi, avevo preso l’attestato HACCP e così in cucina ho fatto l’inserviente, poi l’aiuto cuoco. Quando arrivava il cibo noi detenuti dovevamo contarlo e controllarlo e dovevamo verificare qualità e quantità, la carne spesso la mattina arrivava di un brutto colore, si andava dalla guardia per avvisare, ma nel caso in cui la ditta esterna non aveva più carne si doveva mangiare quella arrivata e di bassa qualità. Nelle prime settimane di lavoro, il nostro gruppo ha dovuto pulire cucina e magazzino lottando e uccidendo dozzine di topi. Non potevamo usare colla per trappole perché ritenuta pericolosa dalla direzione, quindi dovevamo inseguire i topi e dedicare meno tempo alla cucina e alla sua manutenzione. Ma i topi andavano eliminati per il rischio che una commissione esterna facesse un controllo. E qui viene il bello: perché, in caso di evidenti problemi igienici e sanitari, le colpe quasi sempre ricadono sui detenuti stessi. La commissione dei detenuti quindi esiste ma non agisce, firma soltanto”. Cristian poi, leggendo la testimonianza di Claudio, ricorda anche lui un particolare dove l’oggetto in questione è il pane: “A proposito di pane...il sabato e la domenica ti mangi il pane del venerdì, perché la domenica non arriva. Manco la domenica ti potevi mangia del pane fresco...”.

 

E sul lavoro? Cosa sappiamo dei detenuti e delle detenute che svolgono mansioni retribuite nelle cucine e in generale nell’istituto?

 Siamo riusciti ad ottenere la busta paga di un carcerato che ha svolto 10 giorni di lavoro come addetto alle pulizie. La mercede, al netto delle tasse, è di 134,39 euro dalla quale vanno però detratte le spese di mantenimento (trattenute per quote mantenimento). Quello che rimane, è la realtà salariale del detenuto: tolta la quota di mantenimento restano 80,63 euro di retribuzione su 10 giorni lavorativi. Sono poco più di 8 euro netti al giorno, numeri ben lontani dai parametri del mercato del lavoro stabiliti nel contratto collettivo nazionale, ma molto vicini a realtà misere e ingiustificate per una democrazia occidentale.

Insomma, mercedi da metà ‘800, meno di 3 euro per tre pasti giornalieri, prezzi del sopravvitto esorbitanti e con poca varietà. Questa è la sintesi di una realtà che da almeno trent’anni non riceve attenzione politica, mediatica e giuridica, se non fosse per il lavoro di enti e associazioni. In merito sentiamo Mauro, anche lui detenuto per molti anni nelle carceri italiane: “In realtà in alcuni istituti il cibo arriva anche in abbondanza. Succede a Verbania, un carcere con 60 detenuti, dove ho lavorato anche in cucina e ho fatto corsi. Oppure ad Alessandria, dove la cucina funziona bene grazie ad una completa gestione da parte dei detenuti, senza interferenze esterne o delle guardie. A Rebibbia invece la situazione è completamente diversa e degradante, a meno che tu non abbia soldi”. Ma le parole di Mauro toccano anche un altro aspetto, quello dei soldi, dei bilanci degli istituti e il ruolo dell’economato: “Le persone che lavorano all’economato sono un  mistero. Eppure sono loro a gestire i soldi dei detenuti per quanto riguarda le richieste del sopravvitto. Poi c’è un altro aspetto,  cioè che noi paghiamo la merce prima di averla. E spesso accade che quello che hai chiesto non sempre corrisponda alle nostre richieste. In tutta sincerità l’economato assume quasi le sembianze di una banca che ha sotto controllo tutti i libretti di ogni singolo detenuto...”.






Intervista a Stefano Anastasìa, Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio 


Pasti  scadenti e poco guadagno

 ma le ditte si “rifanno” col sopravvitto

 









 Dottor Anastasia, da quanto tempo i detenuti denunciano le condizioni dell’alimentazione all’interno del carcere e i prezzi esorbitanti del sopravvitto?

 “Questo è uno dei problemi più antichi del sistema penitenziario italiano. Mi occupo di carcere  da più di trent’anni e da sempre questo problema è stato sollevato e da sempre le associazioni e gli enti che si occupano dei detenuti hanno in qualche modo rimarcato il problema degli appalti riguardanti il vitto e del sopravvitto. Si punta sostanzialmente, questo è poi quello che viene messo in luce dalla recente pronuncia della Corte dei Conti, a compensare un massimo ribasso con cui si determina l’affidamento del vitto con la fornitura del servizio di sopravvitto. Quindi si offrono pasti scadenti bilanciati dal fatto che poi le ditte partecipanti alla gara guadagnano su quello che i detenuti comprano dallo spaccio interno. E questa è una cosa, appunto, che io conosco da almeno trent’anni. Le racconto  il caso più recente: un reclamo collettivo di alcuni detenuti di Rebibbia, dei primi di agosto, fatto in seguito alla morte di uno di loro, in cui gli stessi, almeno un centinaio di firmatari, lamentano tra le altre cose la qualità del vitto e i costi del sopravvitto.

 Esiste una figura competente che abbia, diciamo il ruolo di esperto nutrizionista. E quindi, in sostanza, chi decide la dieta, l’alimentazione dei detenuti?

 No, a livello nazionale non esiste. Dovrebbe essere determinato nel caso specifico in ciascun contratto d’appalto: quando si stabilisce la gara ovviamente dovrebbero esserci le caratteristiche dei prodotti oggetto dell’appalto e questa cosa deve essere ben specificata. Questo è uno dei punti della raccomandazione che noi abbiamo formulato all'amministrazione penitenziaria e al Provveditorato per il Lazio, Abruzzo e Molise, che era quello interessato dalla decisione della Corte dei Conti, per cui abbiamo previsto esplicitamente che nella definizione del capitolato del servizio di vitto si acquisisca un parere obbligatorio e vincolante di un tecnologo alimentare indipendente. Questo è il tema che dovrà essere esplicitato nelle prossime gare d’appalto.

 La pronuncia della Corte dei Conti stabilisce inoltre che i servizi, per i futuri bandi, vengano separati garantendo così due ditte erogatrici, una per il vitto ed una per il sopravvitto. Ecco, come si è arrivati, oggi, a questa decisione?

 Questo è il tema principale. Ovvero l’offerta al massimo ribasso che il partecipante alla gara perseguiva per ottenere l’appalto si compensava non solo con la scarsa qualità e la scarsa quantità del vitto, ma anche nei prodotti che apparentemente avevano una certo peso però poi all’esito della cottura lo stesso peso si vede quasi estinguere, e questo mi è stato raccontato e non ho difficoltà a crederlo. Come per esempio in certi insaccati o in certe salsicce che all’interno hanno esclusivamente grasso e ovviamente una volta cotte perdono il loro peso iniziale. Quindi questo è il nodo principale: questa scarsa qualità e quantità del vitto era compensata da questo regime di monopolio nell’offerta del sopravvitto, per cui la riduzione dei costi non consente alla ditta di guadagnare abbastanza, perché quando si offrono 3 pasti al giorno a poco più di 2 euro, chi vince quell’appalto molto probabilmente lo vince in perdita. Di certo non si guadagna dal solo vitto, un’azienda non è che partecipa alla gara per beneficienza, lo fa per maturare il suo profitto. Di conseguenza si massimizzano i guadagni dal sopravvitto, cioè sul fatto che i detenuti erano tenuti a comprare da quella medesima azienda per mangiare qualcosa di dignitoso a prezzi però maggiorati rispetto all’esterno.

 Cosa ci dice del controllo delle derrate con delle commissioni composte da detenuti estratti a sorteggio e che, in un certo senso, non sono proprio funzionali al monitoraggio della qualità del cibo?

 Sì, devo dire che questo accade nella maggior parte dei casi, ma devo anche ammettere il contrario. Ad esempio, dalla mia esperienza di garante, ricordo di una denuncia sulla qualità del vitto arrivata da Rebibbia penale anche prima dell’episodio che raccontavo in precedenza. Una denuncia partita proprio da un detenuto parte di questa commissione e che mi ha dettagliato tutti i rilievi da lui svolti sul posto. La commissione che guarda il prodotto come arriva in istituto, può controllare al massimo i pesi delle confezioni e l’aspetto delle merci. Solo questo. È vero, però, che il mezzo del sorteggio non è un buon sistema poiché servono persone capaci e motivate.

 Siamo di fronte a quello che viene identificato come un “segreto di Pulcinella”, un segreto che in realtà non lo è, un qualcosa già di pubblico dominio nonostante i tentativi di tenerlo nascosto. Ecco, secondo lei, perché solo oggi si è aperto un dibattito politico, sociale, giuridico?

 Il caso era conosciuto da tempo agli addetti ai lavori, il problema è che non c’è mai stata un’azione politica o giuridica. Il punto è che qui si sta parlando e si fa riferimento ai mezzi e alle risorse delle amministrazioni penitenziarie, qui in pratica stiamo parlando di bilancio. Io ricordo un altro caso storico e altrettanto importante, che è stato quello della retribuzione dei detenuti. Per legge la retribuzione deve essere parametrata a quella delle equivalenti mansioni prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Invece la retribuzione dei detenuti è stata per alcuni decenni ben lontana dai parametri previsti dal CCNL: la giurisprudenza a partire dalla metà degli anni '90 ha cominciato a rilevare questa discrepanza, ma le mercedi sono state adeguate con il Ministro Orlando, quindi nel 2005, dopo qualche decennio di giurisprudenza che segnalava questa incongruenza. Perché appunto si doveva intervenire sul bilancio del Ministero della Giustizia, cioè ci sono capitoli di bilancio che hanno a che fare con le mercedi, oppure con gli appalti di vitto, che devono essere adeguati all’andamento dei costi delle materie prime e delle retribuzioni. L’amministrazione resiste fin quando è possibile. Le faccio un esempio: io per due anni, dal 2006 al 2008 sono stato capo della segreteria dell’allora sottosegretario alla giustizia con la delega all'amministrazione penitenziaria; ricordo di aver discusso con il direttore generale del bilancio del DAP dell’epoca e gli chiesi: “se la giurisprudenza dice che devono essere pagati seguendo i parametri dei contratti collettivi perché non adeguate le mercedi visto che poi i detenuti vanno in giudizio e giustamente viene riconosciuto l’adeguamento della mercede e quindi poi dovete pagare questo adeguamento?”.

 La risposta del direttore è stata: “Per adeguare le mercedi noi abbiamo bisogno di più soldi dal Ministero dell’Economia che deve assegnare i fondi necessari. Non ce li assegnano? Allora noi continuiamo a dare le mercedi così, lontane dai parametri di legge, i detenuti fanno ricorso e alla fine pagherà il Ministero dell’Economia, mica paghiamo noi”.

 E questo rende chiaro come funziona il sistema.

  

 Prezzi maggiorati e niente sconti

Così il cibo diventa un lusso

 

 

  Cibo scadente e quantità al limite della sussistenza. Come su quel treno lungo mille e una carrozza dove gli emarginati vivono nell’ultimo vagone, ammassati gli uni sugli altri e senza luce, costretti a mangiare delle gommose barrette proteiche prodotte dagli scarti di chi è in testa al treno.

 Ne parliamo con Claudio, 50 anni: “Sono stato in carcere per molto tempo e vi posso assicurare che la cosa più vicina al cibo in carcere è la merda. Negli anni ho visto di tutto. Tutti, sicuramente, ti parleranno almeno una volta dei topi, ospiti indiscussi delle cucine. Ma fosse solo questo! Se parliamo di cibo, il discorso è riassumibile in un ricordo che difficilmente potrei dimenticare: negli anni ‘90, trovai sulla carne dei timbri  di 15 anni prima. In questi casi la soluzione era semplice, nonostante persino il colore della carne urtava la bocca dello stomaco: c’era la guardia che senza imbarazzo ti diceva E che vuoi fa, togli la cotenna e si può cucina’. Facile no? Lo stesso però non si poteva fare quando nel pane trovavo la scagliola, messa lì probabilmente per aumentarne il peso in modo da aggiustare il costo. Se dal panificio, un chilo di pane sono 6-7 panini, in carcere diventano la metà”.

 E così il degrado diventa abitudine e l’abitudine diventa una regola al quale puoi anche sottrarti, ma a tue spese. La leva psicologica è questa: il cibo della direzione è quello che è, vuoi mangiare di più e meglio? Paga, acquista e consuma. Ovvero grazie al sopravvitto, il “servizio” che permette o costringe (a seconda dei punti di vista) i detenuti a comprare pasta, pelati, carne che abbia un colore naturale, pane, verdure e molto altro. Tutti prodotti che non dovrebbero occupare spazio nelle richieste extra del carcerato. Sono generi essenziali che il carcerato deve poter ricevere dal vitto, in modo da utilizzare, ad esempio, le proprie risorse per accontentare desideri o piaceri personali: un alimento particolare, un dolce, il caffè, le sigarette oppure prodotti per l’igiene personale come shampoo, bagnoschiuma. Ma anche beni, come giornali o libri, in grado di combattere la noia o di sentirsi in contatto con il mondo esterno. Ma così non è e così il cibo (e non solo), all’interno del carcere, diventa un lusso. L’alimentazione da diritto si trasforma in un privilegio non richiesto.

 “Ti posso assicurare - continua Claudio - che la maggior parte delle proteste dei detenuti avvengono a causa del cibo. Pensa al solo fatto che quasi in tutte le carceri, o almeno in quelle dove sono stato io, non esiste la mensa o un luogo dedicato esclusivamente al mangiare. Si resta in cella, nello stesso e solito spazio dove la situazione è già quella che è: sovraffollamento, mancanza di igiene…”.

 Vengono alla mente le parole del Garante dei detenuti  Anastasia che racconta proprio di questo, ovvero dell’assenza di un luogo fisico come la mensa, un servizio che permetterebbe di superare annose obiezioni che si fanno sul carcere e sui detenuti, oltre che salvaguardare l’equilibrio psicofisico dell’individuo. Negli istituti, inoltre, è vietato l’acquisto e il consumo di alcolici per vari motivi, tipo quello del baratto, ma è possibile prendere psicofarmaci per combattere, ad esempio, problemi di insonnia. Se ci fosse una mensa, l’alcol verrebbe limitato ai pasti (magari solo a cena), non entrerebbe nelle celle, e al posto di psicofarmaci per dormire, basterebbe un bicchiere di vino. Una banalità, vero, ma che sarebbe in grado di migliorare e non di poco, la salute fisica e mentale dei carcerati.

 Ancora Claudio: “L’altra questione è la mancanza di trasparenza. Il detenuto ordina gli alimenti e paga, ma sa ben poco della provenienza, della qualità e anche del peso. Non ti spieghi del fatto che i costi sono quasi il doppio rispetto a quelli reali, non ti spieghi perché le quantità spesso non corrispondono a quelle ordinate o se accade ti fai il segno della croce sperando che il cibo non sia stato toccato al fine di aumentarne il peso. L’unica conquista ottenuta? La possibilità di avere una bilancia per il controllo. Accade però che sta bilancia è usata dal detenuto responsabile del sopravvitto, e non ti dico i meccanismi di ricatto che si innescano. Se qualcosa non torna nella pesata, spesso il detenuto, per paura di un richiamo, non denuncia e, come dire, pesa con gli occhi bendati”.

  

UNA DIETA NON EQUILIBRATA

 

Il biologo nutrizionista  Giuseppe Labianca di Trani ha esaminato le tabelle ministeriali per i generi alimentari. Ad una prima osservazione  ha detto: “La dieta sembra abbastanza sproporzionata nei confronti dei carboidrati quindi c’è più carboidrato rispetto alla proteina. Facendo una premessa che ovviamente queste sono tabelle medie e quindi andrebbero valutate singolarmente le necessità metaboliche di ognuno dei soggetti, vedo che hanno giornalmente sempre 300 grammi di pane e  300 grammi di pasta, mentre la quota proteica fondamentalmente si riduce al latte mattutino e alla carne o al pesce che orientativamente è tra i 120 e i 200 grammi, quando c’è perché in realtà non c’è nemmeno tutti i giorni. Quindi secondo me non è una dieta assolutamente bilanciata. Quanto alle verdure si dovrebbe sapere che tipo di cottura viene fatta e che tipo di verdura è. Quindi se ad esempio è tutto surgelato, di quella verdura ti prendi poco. Per quanto riguarda la porzione di frutta, 450 grammi al giorno vanno benissimo, soprattutto se è di stagione cioè non è frutta di serra o frutta importata. Comunque in generale è così anche per altre mense:  che siano mense ospedaliere o mense di scuola tutte hanno grossi deficit”.  (C.T.)

 

 

 

 

 

 




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