Nelle cucine della Food Services
dove parte la ricetta del riscatto
di CLAUDIO TUCCI
Esiste una
forma di riscatto sociale che passa per le cucine di una azienda di un piccolo
paesino abruzzese. Una specie di ricetta del
riscatto, in cui il lavoro diventa strumento di
reinserimento, ma soprattutto di speranza. La “ricetta” viene scritta nelle
campagne di Spoltore, nella sede produttiva della Food Services
dell’imprenditrice Angela De Massis. Food Services è una azienda a conduzione familiare
nata cinque anni fa, specializzata nella produzione di pasti pronti per la
clientela. Da sempre, dedita alla ristorazione collettiva, la Food Services
lavora abbracciando diverse realtà sociali: Rsa, centri riabilitativi, mense
scolastiche, istituti religiosi, aziende, strutture alberghiere e turistiche.
Sono 1.500 i pasti veicolati e circa 10.000 kg di preparazioni confezionate per
la grande distribuzione: sono questi i numeri della produzione di un’azienda in
continua crescita e con 15 dipendenti nella sede madre e altri 25 all’interno
dell’azienda partner.
Ma la Food Services non è solo il frutto
di una mente imprenditoriale. È la creazione di una madre che, partendo dalla
propria esperienza personale, ha costruito da zero un contesto lavorativo con
una missione sociale ben precisa: aiutare la collettività. L’esperienza
personale, quella di una mamma che lotta per sua figlia affetta da una rara
malattia, unita alla volontà di fare del lavoro uno strumento di riscatto,
hanno rappresentato l’input iniziale con cui la giovane imprenditrice ha dato
vita ad una realtà in stretto rapporto sociale con il territorio. Il senso di
rivalsa, la speranza, le opportunità, l’integrazione, l’abbattimento di
qualunque pregiudizio, sono i primi ingredienti chiave di questa “ricetta del
riscatto” firmata Food Services.
L’idea prende forma ne 2019 quando
l’azienda avvia un progetto, finanziato anche dalla Caritas, all’interno della
Casa Circondariale di Chieti. Corsi di cucina teorici e pratici, studio delle
varie tecniche alberghiere, prove ed esami con esperti del settore: un progetto
che, in quattro mesi (da marzo a dicembre), ha permesso ai detenuti di ottenere
attestati di aiuto cuoco e addetto
alla mensa, riconosciuti dalla Regione Abruzzo.
Così
spiegano Angela e lo chef Stefano Di Febo: «Quelle due lezioni alla settimana,
la prova finale con gli esperti, la cena di lusso a Natale, sono momenti in cui
il racconto si carica di emozioni concrete: la possibilità di evadere
momentaneamente dalle mura anonime di un carcere; lavorare in gruppo; la
fiducia dimostrata e ricambiata; il senso di appartenenza». Angela e Stefano
ricordano alla perfezione le occhiate felici dei detenuti, la loro voglia di
riscatto, ma, su tutto, il loro stupore nel vedere qualcuno pronto ad aiutarli,
a dare loro un’altra opportunità. Opportunità che, alla fine, è diventata
lavoro fuori dal carcere: l’azienda,
concluso il progetto nella Casa circondariale, ha assunto quattro detenuti
all’interno della sede produttiva. Eppure, se l’assunzione è stata la conclusione
di un’esperienza, la quotidianità lavorativa con i quattro detenuti all’interno
della azienda è stata il punto di partenza di una nuova avventura.
«Inizialmente non è stato semplice»,
racconta Angela. «Gli impiegati mostravano diffidenza nei confronti dei
detenuti, rimanevano guardinghi e la collaborazione lavorativa si manteneva su
un piano formale, gli atteggiamenti erano freddi e spesso il pregiudizio
assumeva una funzione di difesa». Ma è bastato poco per far sì che la
situazione cambiasse. La cooperazione in ogni parte produttiva della filiera
diventava giorno dopo giorno l’occasione perfetta per conoscersi. Ed ecco che
entra in gioco l’ingrediente principale di questa ricetta, senza il quale non
si raggiungerebbe il piatto finale: l’empatia. Ad un certo punto, il muro cade,
la comprensione cresce.
«La quotidianità - continua
l’imprenditrice - aveva portato gli impiegati dell’azienda a conoscere la
storia difficile di ogni singolo detenuto, il loro passato, gli errori, la
libertà negata, l’abbandono, la lontananza dagli affetti più cari. E i
detenuti, a loro volta, vedevano i colleghi non solo come dei nuovi compagni di
avventura, ma l’esempio concreto di una alternativa, di una reale possibilità
di riscatto».
La ricetta, in fin dei conti, sta qui, nel
lavoro come strumento di rivalsa, nell’empatia che azzera qualunque muro e
pregiudizio, nella collettività e nel dare una speranza concreta che si traduce
in opportunità. Nulla di complesso, nulla di impossibile.
Ma c’è di più. L’esperienza della Food
Services con il carcere di Chieti non è legata solo al progetto e
all’assunzione dei quattro detenuti. Il proseguo di questa collaborazione è da
ricercare in un contesto differente dal precedente.
È febbraio 2021. La pandemia dilaga in
tutto il paese. Tra le varie strutture ad essere colpite, anche le carceri
diventano luogo di contagio con dati preoccupanti. È, appunto, il caso del
carcere di Chieti, secondo per numeri solo a quello milanese di Bollate. La
fotografia consegnata dal Dap registra 48 casi di positività al virus (43 gli
asintomatici, 2 ricoverati in ospedale, 3 con sintomi curati in carcere). La
situazione è fuori controllo, l’associazione Voci di dentro denuncia: “La
preoccupazione è molta: la casa circondariale di Chieti è vecchia e fatiscente,
ci sono celle anche da sei persone, alcune hanno ancora la turca. La
promiscuità, l’impossibilità di mantenere le distanze stanno rischiando di
mandare in tilt tutto l’istituto di Madonna del Freddo dove sono rinchiuse un
centinaio di persone, molte delle quali malate. Nessuna notizia sullo stato di
salute del personale, agenti, impiegati, personale della direzione. Una
situazione preoccupante: non ci sono celle per la quarantena, non ci sono
stanze dove mettere le persone risultate positive. Una delle ipotesi in via di
definizione è lo spostamento di tutti i positivi nella sezione femminile. Al
momento la direzione del carcere ha sospeso tutte le attività dei volontari
(molto poche a dire il vero) che fino a sabato si tenevano unicamente via
Skype”.
L’aspetto che desta maggiore preoccupazione
è la mensa: i cuochi sono ammalati, cucinare e gestire le preparazioni diventa
impossibile. Il direttore a questo punto chiede aiuto esternamente, affidando
la gestione della mensa alla Food Services dell’imprenditrice Angela De Massis.
Ed è qui, nel racconto di questo preciso momento emergenziale che le
testimonianze rivelano ciò che, solitamente, viene definito come “il segreto di
Pulcinella”, ovvero ciò che da sempre molti detenuti e diverse associazioni di
volontariato denunciano in tutte le carceri: cibo scadente, di pessima qualità
e insufficiente, frittate allungate con l’acqua per sopperire alla scarsità di uova, carni non ben conservate.
Ma non tutto è rose e fiori
In quelle poche settimane in cui l’azienda ha aiutato la mensa della casa circondariale di Chieti, il personale della Food Services è stato infatti testimone diretto della gestione delle cucine e in particolare delle derrate alimentari destinate ai detenuti che sono apparse a chi prepara pasti insufficienti per quanto riguarda la grammatura. Stefano, il cuoco dell’azienda, ricorda benissimo quei terribili giorni quando avrebbe dovuto cucinare suddividendo un litro di olio d’oliva al giorno per 80 detenuti, pranzo e cena (un litro per 160 pasti, per aggiunta di bassa qualità) oppure preparare la colazione con latte non sufficiente per tutti tanto da doverlo allungare con l’acqua. Eppure, una volta scesi nell’economato, quello che si era presentato davanti agli occhi difficilmente giustificava il cucchiaino d’olio a testa, il latte allungato e la frittata triste e pallida. Quello che Angela e Stefano vedono è un magazzino pieno, con scaffali ben assortiti: olio, latte e uova in quantità tali da garantire una grammatura diversa e maggiore per detenuto, cibo in grado di offrire una dieta sicuramente migliore, e magari con la possibilità di preparare una frittata di sole uova.
«Sono andata subito dal direttore del
carcere - dice Angela De Massis - ho detto che c’era la necessità di gestire al
meglio la mensa, che bisognava garantire pasti completi e sani e questo anche
per alleggerire una situazione emergenziale che rischiava di non avere
soluzione. La risposta del direttore è stata altrettanto semplice, repentina e
subita pronta ad accogliere, ci mancherebbe altro: avete carta bianca, usate la
quantità come da tabella ministeriale, insomma tutto quello che occorre per
garantire una dieta adeguata, servitevi di tutto ciò che si trova nei
magazzini».
Ecco dunque che, ancora una volta,
un’altra pagina di questa “ricetta del riscatto” viene scritta seguendo gli
ingredienti principali firmati Food Services:
il senso di appartenenza, la collettività, l’empatia e l’opportunità di
un’alternativa. Resta, ora, solo un piccolo dubbio: oggi che non c’è più
nessuno lì ad assistere ed aiutare il carcere, come e cosa staranno mangiando i
detenuti? E quelli che gestiscono la mensa avranno la forza di mantenere e
ottenere la giusta ed adeguata alimentazione? Ci si augura di sì, poiché la
ricetta del riscatto passa soprattutto attraverso il rispetto dei diritti.
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