sabato 26 giugno 2021

Cucina in carcere al tempo del Covid

 

Nelle cucine della Food Services   

dove parte la ricetta del riscatto


                                     di CLAUDIO TUCCI

 

Esiste una forma di riscatto sociale che passa per le cucine di una azienda di un piccolo paesino abruzzese. Una specie di ricetta del riscatto, in cui il lavoro diventa strumento di reinserimento, ma soprattutto di speranza. La “ricetta” viene scritta nelle campagne di Spoltore, nella sede produttiva della Food Services dell’imprenditrice Angela De Massis. Food Services è una azienda a conduzione familiare nata cinque anni fa, specializzata nella produzione di pasti pronti per la clientela. Da sempre, dedita alla ristorazione collettiva, la Food Services lavora abbracciando diverse realtà sociali: Rsa, centri riabilitativi, mense scolastiche, istituti religiosi, aziende, strutture alberghiere e turistiche. Sono 1.500 i pasti veicolati e circa 10.000 kg di preparazioni confezionate per la grande distribuzione: sono questi i numeri della produzione di un’azienda in continua crescita e con 15 dipendenti nella sede madre e altri 25 all’interno dell’azienda partner.


Ma la Food Services non è solo il frutto di una mente imprenditoriale. È la creazione di una madre che, partendo dalla propria esperienza personale, ha costruito da zero un contesto lavorativo con una missione sociale ben precisa: aiutare la collettività. L’esperienza personale, quella di una mamma che lotta per sua figlia affetta da una rara malattia, unita alla volontà di fare del lavoro uno strumento di riscatto, hanno rappresentato l’input iniziale con cui la giovane imprenditrice ha dato vita ad una realtà in stretto rapporto sociale con il territorio. Il senso di rivalsa, la speranza, le opportunità, l’integrazione, l’abbattimento di qualunque pregiudizio, sono i primi ingredienti chiave di questa “ricetta del riscatto” firmata Food Services.

L’idea prende forma ne 2019 quando l’azienda avvia un progetto, finanziato anche dalla Caritas, all’interno della Casa Circondariale di Chieti. Corsi di cucina teorici e pratici, studio delle varie tecniche alberghiere, prove ed esami con esperti del settore: un progetto che, in quattro mesi (da marzo a dicembre), ha permesso ai detenuti di ottenere attestati di aiuto cuoco e addetto alla mensa, riconosciuti dalla Regione Abruzzo.

Così spiegano Angela e lo chef Stefano Di Febo: «Quelle due lezioni alla settimana, la prova finale con gli esperti, la cena di lusso a Natale, sono momenti in cui il racconto si carica di emozioni concrete: la possibilità di evadere momentaneamente dalle mura anonime di un carcere; lavorare in gruppo; la fiducia dimostrata e ricambiata; il senso di appartenenza». Angela e Stefano ricordano alla perfezione le occhiate felici dei detenuti, la loro voglia di riscatto, ma, su tutto, il loro stupore nel vedere qualcuno pronto ad aiutarli, a dare loro un’altra opportunità. Opportunità che, alla fine, è diventata lavoro fuori dal carcere:  l’azienda, concluso il progetto nella Casa circondariale, ha assunto quattro detenuti all’interno della sede produttiva. Eppure, se l’assunzione è stata la conclusione di un’esperienza, la quotidianità lavorativa con i quattro detenuti all’interno della azienda è stata il punto di partenza di una nuova avventura.

«Inizialmente non è stato semplice», racconta Angela. «Gli impiegati mostravano diffidenza nei confronti dei detenuti, rimanevano guardinghi e la collaborazione lavorativa si manteneva su un piano formale, gli atteggiamenti erano freddi e spesso il pregiudizio assumeva una funzione di difesa». Ma è bastato poco per far sì che la situazione cambiasse. La cooperazione in ogni parte produttiva della filiera diventava giorno dopo giorno l’occasione perfetta per conoscersi. Ed ecco che entra in gioco l’ingrediente principale di questa ricetta, senza il quale non si raggiungerebbe il piatto finale: l’empatia. Ad un certo punto, il muro cade, la comprensione cresce.

«La quotidianità - continua l’imprenditrice - aveva portato gli impiegati dell’azienda a conoscere la storia difficile di ogni singolo detenuto, il loro passato, gli errori, la libertà negata, l’abbandono, la lontananza dagli affetti più cari. E i detenuti, a loro volta, vedevano i colleghi non solo come dei nuovi compagni di avventura, ma l’esempio concreto di una alternativa, di una reale possibilità di riscatto».

La ricetta, in fin dei conti, sta qui, nel lavoro come strumento di rivalsa, nell’empatia che azzera qualunque muro e pregiudizio, nella collettività e nel dare una speranza concreta che si traduce in opportunità. Nulla di complesso, nulla di impossibile.

Ma c’è di più. L’esperienza della Food Services con il carcere di Chieti non è legata solo al progetto e all’assunzione dei quattro detenuti. Il proseguo di questa collaborazione è da ricercare in un contesto differente dal precedente. 

È febbraio 2021. La pandemia dilaga in tutto il paese. Tra le varie strutture ad essere colpite, anche le carceri diventano luogo di contagio con dati preoccupanti. È, appunto, il caso del carcere di Chieti, secondo per numeri solo a quello milanese di Bollate. La fotografia consegnata dal Dap registra 48 casi di positività al virus (43 gli asintomatici, 2 ricoverati in ospedale, 3 con sintomi curati in carcere). La situazione è fuori controllo, l’associazione Voci di dentro denuncia: “La preoccupazione è molta: la casa circondariale di Chieti è vecchia e fatiscente, ci sono celle anche da sei persone, alcune hanno ancora la turca. La promiscuità, l’impossibilità di mantenere le distanze stanno rischiando di mandare in tilt tutto l’istituto di Madonna del Freddo dove sono rinchiuse un centinaio di persone, molte delle quali malate. Nessuna notizia sullo stato di salute del personale, agenti, impiegati, personale della direzione. Una situazione preoccupante: non ci sono celle per la quarantena, non ci sono stanze dove mettere le persone risultate positive. Una delle ipotesi in via di definizione è lo spostamento di tutti i positivi nella sezione femminile. Al momento la direzione del carcere ha sospeso tutte le attività dei volontari (molto poche a dire il vero) che fino a sabato si tenevano unicamente via Skype”.

L’aspetto che desta maggiore preoccupazione è la mensa: i cuochi sono ammalati, cucinare e gestire le preparazioni diventa impossibile. Il direttore a questo punto chiede aiuto esternamente, affidando la gestione della mensa alla Food Services dell’imprenditrice Angela De Massis. Ed è qui, nel racconto di questo preciso momento emergenziale che le testimonianze rivelano ciò che, solitamente, viene definito come “il segreto di Pulcinella”, ovvero ciò che da sempre molti detenuti e diverse associazioni di volontariato denunciano in tutte le carceri: cibo scadente, di pessima qualità e insufficiente, frittate allungate con l’acqua per sopperire alla scarsità di uova, carni non ben conservate.

Ma non tutto è rose e fiori

In quelle poche settimane in cui l’azienda ha aiutato la mensa della casa circondariale di Chieti, il personale della Food Services è stato infatti testimone diretto della gestione delle cucine e in particolare delle derrate alimentari destinate ai detenuti che sono apparse a chi prepara pasti insufficienti per quanto riguarda la grammatura. Stefano, il cuoco dell’azienda, ricorda benissimo quei terribili giorni quando avrebbe dovuto cucinare suddividendo un litro di olio d’oliva al giorno per 80 detenuti, pranzo e cena (un litro per 160 pasti, per aggiunta di bassa qualità) oppure preparare la colazione con latte non sufficiente per tutti tanto da doverlo allungare con l’acqua. Eppure, una volta scesi nell’economato, quello che si era presentato davanti agli occhi difficilmente giustificava il cucchiaino d’olio a testa, il latte allungato e la frittata triste e pallida. Quello che Angela e Stefano vedono è un magazzino pieno, con scaffali ben assortiti: olio, latte e uova in quantità tali da garantire una grammatura diversa e maggiore per detenuto, cibo in grado di offrire una dieta sicuramente migliore, e magari con la possibilità di preparare una frittata di sole uova.

«Sono andata subito dal direttore del carcere - dice Angela De Massis - ho detto che c’era la necessità di gestire al meglio la mensa, che bisognava garantire pasti completi e sani e questo anche per alleggerire una situazione emergenziale che rischiava di non avere soluzione. La risposta del direttore è stata altrettanto semplice, repentina e subita pronta ad accogliere, ci mancherebbe altro: avete carta bianca, usate la quantità come da tabella ministeriale, insomma tutto quello che occorre per garantire una dieta adeguata, servitevi di tutto ciò che si trova nei magazzini».

Ecco dunque che, ancora una volta, un’altra pagina di questa “ricetta del riscatto” viene scritta seguendo gli ingredienti principali firmati Food Services: il senso di appartenenza, la collettività, l’empatia e l’opportunità di un’alternativa. Resta, ora, solo un piccolo dubbio: oggi che non c’è più nessuno lì ad assistere ed aiutare il carcere, come e cosa staranno mangiando i detenuti? E quelli che gestiscono la mensa avranno la forza di mantenere e ottenere la giusta ed adeguata alimentazione? Ci si augura di sì, poiché la ricetta del riscatto passa soprattutto attraverso il rispetto dei diritti.

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