Amo un uomo che, dopo tre decenni al 41-bis, avrebbe il diritto di trovare una strada per tornare alla vita, per spendere nel mondo, tra gli altri, le conoscenze che tanti anni di sepoltura gli hanno dato.
"Amo un fantasma". Mi è stato suggerito di partire da questo titolo per scrivere della mia esperienza. Lo guardo - il titolo- e le labbra mi si increspano in un sorriso. Avete mai sentito parlare di un fantasma che deve stare attento al colesterolo? No? Neppure io. E quindi penso all'amore mio che, quando io scrivo "male", mi risponde subito "non piagnucolare". Perché "amo un fantasma" in realtà mi riporta alla casa di mia madre, così vuota dopo che mio padre morì, e alle lettere di lei che trovai nascoste perché non si potevano imbucare, mentre le mie vanno di là del mare e -se arrivano nel cimitero dei vivi- è in mano ad un uomo che arrivano, sebbene aperte, già lette, passate per molte mani... Fantasma qui è la responsabilità di chi dovrebbe prevedere il diritto all'affettività, al coltivare rapporti sani e invece nega colloqui, si impone come mastodontico apparato con tempi da lemure e il cervello di una medusa... Parlando di fantasmi, mi capita di parlare con quelli dei due grandi giudici che pensarono il “carcere duro”, il 41-bis. Un dialogo in cui mi capita di dire: "ma vi rendete conto di cosa hanno fatto del vostro lavoro? Un sistema per annullare l'uomo! Dovreste andare a parlare di notte all'orecchio dei vostri colleghi e dirglielo di avere il vostro coraggio di stravolgere tutto, guardare in faccia ciò che accade!". Saranno deliri di chi apparecchia per uno e dorme da solo in attesa che qualcosa cambi?
Ogni missiva comincia con la
dicitura "dal regime persecutorio - sistema di tortura" - non ci
stanno fantasmi la, mostri nemmeno, solo uomini a cui è stato rubato persino il
pensiero di un futuro e sono stati sepolti nel cemento per essere eternamente
pericolosi a priori, secondo alcuni perché sono mafiosi e "un mafioso
smette di esserlo quando muore perché può uccidere solo con un gesto degli
occhi". A costoro mi verrebbe voglia di dire: "e ne sei sicuro? Ci
sei andato a parlare? Hai visto come vivono? Hai visto come perde il senno e la
salute chi senza più nulla sta nel nulla ad aspettare che sopraggiunga
qualcosa, fosse anche la morte?". L'amore ti arriva -hanno detto- come un
fulmine che fa stramazzare al suolo. È vero e non è vero, perché il mio ha
avuto bisogno di tempo per capire che con "un fantasma" ci si può
stare anche se non ci stai. A vent'anni forse non ci sarei riuscita. Troppo
forte la spinta di fare cose usuali per un uomo e una donna, come mettere su
famiglia o semplicemente appropriarsi della carne, del respiro dell'altro per
sentire di averlo accanto. Ma - scusate
il francesismo- ho mangiato abbastanza merda e ho preso abbastanza botte per
capire chi vale davvero e decidere di tenermelo anche se per ora sono i nostri
inchiostri a rincorrersi, farsi dialogo, offrirsi carezze, baci e quel
sostegno, quel rispetto, che altrove non ho trovato. Pensare che ci siamo
evitati per anni perché fa paura pensare di amare qualcuno che non puoi vivere,
non puoi stringere, con cui non puoi fare nulla se qualcun altro, molti altri,
non ti autorizzano. Altro sorriso: penso all'amica che quindici anni fa mi
diceva "sembri una medium. Parli con gente che non c'è". Intanto lei
è morta davvero e noi siamo ancora qua a dialogare oltre la distanza e le
condanne, i muri e i pregiudizi, l'assenza di speranza imposta da una
situazione che più che giustizia mette in atto vendetta e piace tanto alla
politica e a quel popolino che si ciba del sangue del capro espiatorio di turno
in un paese che rifiuta di guardare al suo passato e metabolizzarlo, si rifiuta
di farlo proprio, e deve dare a qualcuno la colpa facendone un cattivo per
sempre. E niente, forse ci vuole un'inclinazione al viaggio, all'avventura, per
amare "un fantasma". Di sicuro ci vuole la tenerezza e il piede di
porco, la spranga e uno zaino capiente e il coraggio di mettersi a nudo
togliendo ben più che i vestiti. Se in molti riescono a non pensarci riempiendo
le giornate di impegni e cose da fare, per noi due le grandi domande sono
sempre presenti: "chi siamo? Dove stiamo andando? A cosa serve?
". No, non amo un fantasma. Amo un
uomo che, dopo tre decenni al 41-bis, avrebbe il diritto di trovare una strada
per tornare alla vita, per spendere nel mondo, tra gli altri, le conoscenze che
tanti anni di sepoltura gli hanno dato. E sono in molti coloro che potrebbero
diventare "fari che permettono ad altri di non finire sugli stessi scogli
su cui loro sono andati a sbattere". Al mio fantasma che si definisce
diversamente vivo, viene imposto però di mettere un altro al proprio posto, di
attuare una "collaborazione" come se dire chi fosse con te quando hai
fatto qualcosa di sbagliato ti sollevasse dalle tue responsabilità facendole ricadere
sull'altro e attuasse quel pentimento che sappiamo tutti essere fatto
interiore. E se lui avesse ragione quando afferma di non essere mai stato
quello di certe narrazioni stampate nero su bianco e gridate dai fogliacci che
delle vittime e dei carnefici fanno solo svendita? Ci siamo trovati, io e lui,
come due bimbi che dopo un cenno di saluto, cominciano a giocare assieme e
giocando a parlare e parlando a capire e capendo ad amare. Ci incontriamo nei
sogni e la nostra casa è di carta ma siamo più vicini di tanti che dividono il
letto ed il resto, ciò non impedisce di ospitare chi arriva a bussare in cerca
di riparo da tempeste o solitudine, che viva il nostro dramma o altri o
semplicemente voleva un caffè. L'hanno capito gli amici che con infinita
delicatezza, nell'assenza, vedono una coppia come tante, due che si vogliono
proprio bene. Io gli presto i miei occhi per vedere fuori e ricordarsi che è al
mondo, lui è il mio porto sicuro e si assicura che al mondo mi resti voglia di
starci. Abbiamo imparato a volare più in alto delle aquile e degli aerei e a
scendere a profondità impensabili e ancora cerchiamo un sentiero per uscire dal
labirinto che altri uomini hanno creato e assomiglia tanto a luoghi che gli
uomini avevano giurato non sarebbero mai più esistiti, quelli dove i corpi si
fanno cenere nei forni e certe ragioni diventano il torto più grande. Non so se
l'ho detto bene, so solo che gli voglio bene, anzi di più, molto molto di più.
Giovanna Darko*
*Il nome di fantasia scelto dall’autrice
è dovuto all’esigenza di tutelare la privacy dei familiari, persone che loro
malgrado pagano il prezzo dello stigma
Pubblicato nel numero 49 della rivista Voci di dentro
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