di ANTONELLA LA MORGIA
La fuga di sette ragazzi dal carcere minorile Beccaria non
andrebbe letta come la conseguenza di cosa mancava- e avrebbe dovuto esserci - al
penitenziario in cui erano reclusi. Cioè, l’assenza di punti vulnerabili di cui
è stato facile approfittare: le impalcature e le protezioni di un cantiere nell’edificio
i cui lavori non erano terminati. O la scarsa sorveglianza degli agenti per un
organico insufficiente.
D’accordo. Mettiamo più personale di polizia a guardarli
come cani e pastori un gregge. Oggi solo a qualche illuminato direttore, ai
cappellani, ai pochi educatori e ancora ai sempre meno numerosi volontari va
riconosciuta la lodevole missione – laica o evangelica che sia - di riprendere
quelle vite smarrite, come pecore. E mettiamo muri più alti, a chiudere ancora
più aria, luce, cielo di quanto non filtri, per sognare di rubarli nel giorno
di Natale.
Questo episodio piuttosto che evidenziare cosa mancava, ci dice invece cosa c’era in quel carcere. Spesso, quasi sempre, cosa c’è in ogni carcere. Solitudine, vuoto, negazione di diritti diversi da quell’integrità della libertà personale che la pena detentiva principalmente aggredisce, poi però portandosi dietro molte altre e afflittive privazioni, che investono affetti, occupazioni, direzioni e impegni, aspettative, desideri, interessi.
Era stato già Mauro Palma, il Garante Nazionale, a
denunciare nella sua relazione annuale al Parlamento il problema del tempo. “Il
tempo della sottrazione di libertà non può essere un tempo vuoto” aveva detto,
precisando che la finalità rieducativa sancita nell’art 27 della Costituzione
non va intesa come “un’indicazione di politica penale, ma è la concretizzazione
di un diritto soggettivo della persona reclusa”.
Questi giovani, davvero così giovani, ancora o poco più che adolescenti,
hanno sì compiuto un gesto estremo e questo Natale con la loro fuga da film
hanno voluto che la luce della cometa indicasse a noi la loro “capanna” e illuminasse
il carcere. Quel luogo che nemmeno gli 86* detenuti suicidi (erano 79 nel
momento in cui a giugno il Garante riferiva alle Camere) hanno potuto mettere
sotto i riflettori e l’attenzione seria della stampa nazionale. Un luogo dove
se non si vede la speranza di un domani, si preferisce alla paura dello stesso
domani la morte (dopo la quale non si può rischiare nulla) o i rischi – anche
molti - della fuga.
È stata una cine-evasione, come hanno scritto alcuni
giornali, che ci ricorda il celebre Papillon e molti altri titoli di una lunga
filmografia. Se non fosse che colpevoli di evasione siamo anche noi. Lo siamo dal
compito e dal dovere di occuparci dei carichi che se non sono residuali, da
sempre fanno parte di quanto “scartiamo”, perché in fondo il carcere è questo
(gabbia o discarica) del e nel nostro immaginario collettivo.
Stando così le cose, uscire da lì nuovi, recuperando se stessi, è solo
questione di eroismo, la fortunata coincidenza di legami che si incontrano in
un dentro che vuole isolare, alienare, confinare mente e corpo delle persone e
un fuori che ci prova ad accogliere. E troppe poche volte ci riesce, per
un’infinita serie di ostacoli. Dalla scarsità delle risorse alla difficile
collaborazione delle istituzioni, fino agli stessi limiti del privato sociale
quando non qualificato e deresponsabilizzato, fino quasi alla resa per citare
chi, proprio in questi giorni, esorta a non incensare il Terzo settore ma lo
invita all’autocritica.
Non da lì dentro a fuori, come hanno fatto i ragazzi nella
loro fuga, ma da fuori a dentro dobbiamo tutti oltrepassare quei muri del
carcere. Per entrarvi, guardarlo e interrogarci molto e ancora di più, e da
parte di chi non lo fa abbastanza. Su cosa? Sul suo senso, non solo per i più
giovani, come si sta facendo, non senza retorica, in questi giorni. Si
interroghino non già le persone che da anni e ogni giorno lo fanno: operatori,
volontari, agenti, direttori. Ma oltrepassi i muri chi manca all’appello di
questo sguardo di attenzione. Uno sguardo che questa fuga, i suicidi, le parole
mai ascoltate dei garanti, degli studiosi, le voci che da quel dentro escono e
pochi ascoltano chiedono a noi, alla società. Un invito forte. Più che mai un
grido d’allarme.
Dati ricavati da Dossier di Ristretti "Morire di carcere" con l'aggiunta di A. Arben che viene contato tra i suicidi del 2021 (31 dicembre), mentre è il primo del '22 come indicano le agenzie di stampa.
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