di ANTONELLA LA MORGIA
La fuga di sette ragazzi dal carcere minorile Beccaria non
andrebbe letta come la conseguenza di cosa mancava- e avrebbe dovuto esserci - al
penitenziario in cui erano reclusi. Cioè, l’assenza di punti vulnerabili di cui
è stato facile approfittare: le impalcature e le protezioni di un cantiere nell’edificio
i cui lavori non erano terminati. O la scarsa sorveglianza degli agenti per un
organico insufficiente.
D’accordo. Mettiamo più personale di polizia a guardarli
come cani e pastori un gregge. Oggi solo a qualche illuminato direttore, ai
cappellani, ai pochi educatori e ancora ai sempre meno numerosi volontari va
riconosciuta la lodevole missione – laica o evangelica che sia - di riprendere
quelle vite smarrite, come pecore. E mettiamo muri più alti, a chiudere ancora
più aria, luce, cielo di quanto non filtri, per sognare di rubarli nel giorno
di Natale.
Questo episodio piuttosto che evidenziare cosa mancava, ci dice invece cosa c’era in quel carcere. Spesso, quasi sempre, cosa c’è in ogni carcere. Solitudine, vuoto, negazione di diritti diversi da quell’integrità della libertà personale che la pena detentiva principalmente aggredisce, poi però portandosi dietro molte altre e afflittive privazioni, che investono affetti, occupazioni, direzioni e impegni, aspettative, desideri, interessi.