Pubblichiamo in anteprima l'articolo di Francesco Lo Piccolo, direttore di Voci di dentro
Noi siamo George Floyd.
Noi siamo George Floyd.
Noi, cittadini di questo mondo che siamo di pelle nera, vite
uguali ma considerate disuguali, e nei fatti disuguali, discriminati nel
lavoro, nella possibilità di avere un mutuo per la casa, con un’aspettativa di
vita inferiore a quella dei bianchi, con una mortalità infantile superiore,
rinchiusi nelle periferie e nei ghetti.
Noi, neri uccisi a migliaia in America, uomini e donne, di Los Angeles, Ferguson, Baltimora,
Minneapolis, Atlanta… noi uomini e donne, nomi e cognomi come quelli scritti
nel murales dedicato a Floyd: Ahmaud Arbery, Breonna Taylor, Eric Garner,
Trayvon Martin, Jordan Davis, Rekia Boyd, Freddie Grey, Tamir Rice… nomi
scanditi dal reverendo Al Sharpton al santuario della North Central University
il 4 giugno 2020. Uomini e donne eredi di quei neri che hanno materialmente
costruito l’America di oggi, con le sue strade e i suoi grattaceli.
Noi, palestinesi uccisi da Israele, come Iyad Hallaq, 32
anni. Iyad viveva a Gerusalemme e ogni giorno, da sei anni, frequentava la
scuola Al Bakriyyah, a poca distanza dalla Porta dei Leoni, una delle entrate
alla città vecchia. Era autistico. Ma soprattutto era palestinese. Tanto basta
a farne un sospetto. Per questa ragione è stato ucciso all’inzio di questo
mese: i poliziotti israeliani che lo hanno incrociato sabato hanno detto di
aver pensato che fosse armato o volesse compiere un attacco. Lo hanno inseguito
e lo hanno ucciso con sette colpi di arma da fuoco. Nessun tentativo di arresto
o di verifica dell’effettivo pericolo.
Iyad è morto come sono morti tanti altri palestinesi prima di lui,
sospettati di avere in mano un coltello, di voler attentare alla vita di un
soldato o un poliziotto israeliano. Organizzazioni internazionali l’hanno
definita la pratica dello “shoot to kill”, sparare per uccidere, la reazione
tipo delle forze israeliane: se anche il sospetto, palestinese, non rappresenta
un pericolo, la prima e immediata forma di difesa da un pericolo solo presunto
è sparare. Anche se è lontano, anche se potrebbe essere fermato in altro modo.
Iyad Hallaq , uno dei tanti. Uno dei 200 e più palestinesi uccisi nel corso del
2019 secondo le documentazioni del Centro palestinese per i diritti umani,
al-Mezan: duecento persone (tra loro anche 47 bambini) che partecipavano alle
proteste della Grande Marcia del Ritorno per chiedere la revoca del blocco
della Striscia e il ritorno dei rifugiati nelle loro città.
Noi siamo George Floyd.
Noi, curdi massacrati da Erdogan, almeno 300 nel 2019
secondo dati Onu, uccisi a Nusabin a ridosso della frontiera con la Siria per
il lancio di proiettili di mortai, a
Suruc, a Qamishli, a Tal Abyad. Civili in gran parte, senza casa, senza un
tetto dove dormire dopo la distruzione di interi quartieri a Diyarbakır,
Şırnak, Mardin, Cizre, Nusaybin, e Yüksekova
Noi democratici turchi come Helin Bolek e Ibrahim Gokcek
morti a Istanbul dopo quasi un anno di sciopero della fame. O uccisi a
bruciapelo come è accaduto a molti giornalisti turchi, o incarcerati (quasi
duecento ad oggi) come è avvenuto per Ahmet Altan, tra i più noti
scrittori che non si è mai piegato al
potere del regime, condannato
all’ergastolo aggravato insieme ad altri cinque colleghi, tra cui un’altra veterana
della stampa in Turchia, Nazli Ilicak, 73 anni.
Noi siamo George Floyd.
Noi, migranti annegati nel Mediterraneo, come Aylan Curdi o
come il quattordicenne del Mali annegato nel Mediterraneo mentre cercava di
raggiungere l’Europa con la pagella cucita nella tasca…19 mila vittime in sei
anni ci ricorda la Fondazione ISMU. Uomini, donne, bambini. Corpi senza nome.
Persone in fuga da guerre, persecuzioni e carestie che hanno tentato la
traversata del Mediterraneo, persone spesso già provate da prolungati periodi
di detenzione nelle carceri libiche, uno dei paesi con il maggior numero di
partenze. Vittime dell’inasprimento
delle politiche italiane in tema di migrazione, morti e abbandonati dopo che
sono state ignorate le tante richieste di riformare strutturalmente le
politiche migratorie europee e garantire l’apertura di canali sicuri e regolari
per rifugiati e migranti. Noi vittime di guerre
devastanti e sanzioni, noi che siamo milioni di morti e di profughi. Noi
vittime dei decreti sicurezza.
Noi siamo George Floyd.
Noi, carcerati e abbandonati in celle malsane e senza
speranza, costretti in 8 in spazi che possono contenere due persone, 60 mila in
edifici che ne possono contenere 40 mila, puniti e cancellati dalla società,
vittime di violenze e sopraffazioni. Noi Rouan Ourrad, Ariel Ahmad, Agrebi
Slim, Hafedh Chouchane, Ben Mesmia Lofti, AlìBakili, Salvatore Cuono
Piscitelli, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu, Kedri Haitem, Carlo Samir Perez Alvarez,
Ante Culic, Marco Boattini, morti in seguito alle rivolte nelle carceri a
marzo, alcuni deceduti durante il trasferimento in altri istituti.
Noi, Magherini, Cucchi, Aldrovandi, Uva…
Noi siamo George
Floyd.
Noi, poveri in Italia
in fila alle mense Caritas, precari e lavoratori del food delivery e
dell’e-commerce, sfruttati, schiavi ed esclusi. Noi quattro milioni tra i 25 e i 35 anni, i cosiddetti
flessibili, rider, operatori di call center, trasportatori, edili, noi che
produciamo il 4,5 per cento del Pil ma ai quali vengono concesse le briciole.
Noi stranieri, stagionali nei campi, schiavi del caporalato e
dell’agroalimentare, noi come Ben Ali Mohamed, senegalese, quarto morto in un
anno e mezzo nel ghetto di Borgo Mezzanone.
Noi siamo George Floyd.
Noi, corpi da usare e da scartare una volta consumati. Noi
siamo George Floyd, metafora delle diseguaglianza. In America e ovunque nel mondo. Fino a quando non ci toglieremo dal collo il
ginocchio che non ci fa respirare. Fino a quando non torneremo a respirare.
Francesco Lo Piccolo
Vero, profondo e completo di tutti quegli aspetti e situazioni che accomunano in una fratellanza tra tutti gli emarginati o comunque gli sfruttati e quelli privati di fatto della loro identità "umana".
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