La polizia penitenziaria non deve essere subordinata gerarchicamente al direttore del carcere. E lo stesso comandate di istituto non deve avere un rapporto di subordinazione gerarchica con il direttore. Questo il senso di una nota del capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria dove si parla di “rimodulazione dei rapporti gerarchici” che è stata inviata lo scorso 22 ottobre al ministro della Giustizia e alle Organizzazioni sindacali della polizia ma non ai direttori delle carceri o ai loro sindacati.
Una nota di dieci pagine che ha per titolo “Schemi di decreti legislativi correttivi del riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate”: decreti che saranno portati in parlamento e che di fatto, oltre a riordinare ruoli e carriere, tolgono potere ai direttori delle carceri (art. 9, comma 1, L. 395/90: “Gli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria hanno doveri di subordinazione gerarchica nei confronti del direttore dell’istituto) per trasferirlo ai comandanti della polizia penitenziaria.
Decreti che di fatto sono il classico “cavallo di Troia” per chiudere con la riforma del ’75 che in grandissima sintesi parla di umanizzazione della pena e di rieducazione e sicurezza garantite dalla figura e dal ruolo del direttore. C’è un punto che la dice lunga sul senso di questa nota, ed è a pagina quattro dove si legge testuale: “…previsione che il comandante di reparto infligga la misura della sanzione”. Non è cosa da poco: significa che non deve più essere tra i poteri del direttore quello di intervenire per avviare l’iter per la sospensione o destituzione dal servizio di un agente in caso di trattamenti nei confronti dei detenuti che non siano in regola col senso di umanità della pena”. In poche righe ecco annullato l’articolo 41, comma 2, dell’Ordinamento penitenziario dove è scritto che “Il personale che, per qualsiasi motivo, abbia fatto uso della forza fisica nei confronti dei detenuti e internati, deve immediatamente riferirne al direttore dell’istituto il quale dispone, senza indugio, accertamenti sanitari e procede alle altre indagini del caso”.
Preoccupato così scrive al capo del dipartimento e al ministro Bonafede il segretario nazione dei direttori (DPS) M. Antonio Galati: “… incidendo in modo significativo sull’attuale impianto normativo e organizzativo, queste misure vanno a stravolgere i principi di fondo che, sin dalle leggi istitutive dell’Ordinamento penitenziario, hanno, nel tempo, orientato il Legislatore. Un Legislatore che, attento ad assicurare una conduzione degli istituti penitenziari rispondente a principi di equità e umanità, ha affidato al Direttore dell’istituto il ruolo centrale di Garante della Legalità; esigenza riaffermata in sede internazionale con la Raccomandazione R (2006)2 del Comitato dei Ministri degli Stati membri del Consiglio d’Europa sulle Regole Penitenziarie europee cui il sistema penitenziario deve continuare conformarsi”.
E ancora Galati: “Depotenziare il ruolo del Dirigente Penitenziario Direttore di Istituto, sottraendogli alcune prerogative - fondamentali per governare con i necessari equilibrio e terzietà, la difficile e complessa realtà penitenziaria – significa non solo violare i principi posti a base delle riforme sopra richiamate, ma anche creare una pericolosa alterazione degli equilibri gestionali, senza, di contro, lasciarne intravedere i vantaggi; significa minare la governabilità degli istituti penitenziari, attesa la indefettibile funzione di coordinamento del Direttore rispetto alla coesistenza delle diverse istanze interne al sistema “carcere” (trattamentali, amministrative, contabili), che devono necessariamente interagire con quella di sicurezza e i cui operatori non possono, ovviamente, riferirsi al Comandante di Reparto quale proprio vertice”.
Deriva securitaria in linea con i tempi dunque. Confermata da un post tipo “a noi i pieni poteri” di Salviniana memoria che si trova sulla pagina fb dell’Associazione dei dirigenti e funzionari della polizia penitenziaria : “… è di tutta evidenza che nel sistema penitenziario italiano – finora NON gestito dai Dirigenti di Polizia Penitenziaria – oggi si registrino gravi episodi di violenza ed aggressione ai nostri agenti; i detenuti arrivano a chiamare il 112 dalla cella con telefonini di cui illegittimamente sono in possesso … i reclusi saltano le mura di cinta con le lenzuola annodate come nei film e la lista potrebbe proseguire. Qualcuno esalta la terzietà, l’equilibrio e l’imparzialità degli attuali vertici degli istituti penitenziari a vantaggio di una “conduzione rispondente a princìpi di equità ed umanità”, e al contempo vuole porsi a capo di un Corpo di polizia a cui non appartiene. Qualcuno, senza approfondire, parla di profili di incostituzionalità e di eccesso di delega, quando l’unico eccesso di delega che è dato rilevare è quello che ha consentito impropriamente, nel 2017, ad una categoria non appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria di arrogarsi prerogative di un comparto a cui non potranno più fare alcun riferimento non appena si addiverrà alla sottoscrizione del loro contratto”.
Un’ultima considerazione e che conferma, anche questa, il senso che viene dato alla pena e che certo non ha nulla a che vedere con i principi della rieducazione e della risocializzazione come è prescritto dalla Costituzione italiana e dalle Convenzione Europee. Si trova nell’Atto di indirizzo politico-istituzionale del ministro Bonafede per l’anno 2020 ed è il punto dove si definiscono i direttori di istituto (così come del resto tutti gli operatori appartenenti al Comparto Funzioni centrali, quindi educatori, amministrativi, contabili etc.) “personale estraneo” all’amministrazione penitenziaria. Francamente parole inquietanti, chiaro ritorno a un’idea di carcere chiuso gestito solo dalla polizia, e dove privazioni e sofferenze fisiche sarebbero gli strumenti per favorire il pentimento e la rieducazione del reo. Altro che pre 1975, qui siamo al carcere degli anni Trenta. (Francesco Lo Piccolo, testo pubblicato su huffingtonpost)
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