Grazia Zuffa per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto del 14 agosto 2019
Si riparla di affettività e sessualità in carcere. L’iniziativa parte dalla Conferenza dei garanti regionali delle persone private della libertà, che chiedono ai consigli regionali di fare propria una proposta di legge per la “tutela delle relazioni affettive e intime delle persone detenute”, per poi presentarla alle Camere. L’idea di rivolgersi ai consigli regionali è quanto mai opportuna.
Il coinvolgimento di istituzioni decentrate come le Regioni darà risonanza – si spera – a una campagna di largo respiro che riaffermi i limiti (costituzionali) della pena nella sua valenza afflittiva, e di converso riproponga il tema dei diritti fondamentali che le persone mantengono pur se ristrette.
Perché questa è la questione, al nocciolo. Può lo Stato privare le persone del diritto a una vita sessuale e a coltivare affetti solo perché imprigionate? Togliere ai detenuti e alle detenute una vita relazionale e sessuale non contrasta col loro diritto alla salute, inteso come diritto alla tutela del benessere psicofisico e sociale? E non è forse il diritto alla salute il primo dei diritti fondamentali per tutti i cittadini e le cittadine, liberi o detenuti?
Questi quesiti, che rimandano a principi etici e costituzionali, non sono inediti e vi sono pronunciamenti autorevoli a favore del diritto alla sessualità e all’affettività in carcere. Li citeremo tra poco. E allora perché i detenuti e le detenute italiane aspettano da oltre venti anni che tali principi si calino nel concreto della vita carceraria?
La prima iniziativa risale al secolo scorso, al 1999. Alessandro Margara, allora direttore dell’Amministrazione Penitenziaria, propose di modificare il Regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario introducendo la possibilità per i detenuti di trascorrere coi propri cari fino a ventiquattro ore consecutive in apposite unità abitative protette da privacy all’interno dell’istituto penitenziario.
Di fronte alla Commissione Giustizia della Camera, Margara asseriva: “Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà”. Con poche e acute parole, andava al fondo della questione, al conflitto fra il principio secondo cui la detenzione non deve annullare i diritti fondamentali a parte la libertà, da un lato; e i dispositivi carcerari di segregazione di corpi privati di umanità, dall’altro.
Da allora, il principio evocato da Margara è stato ribadito più volte. Dalla Corte Costituzionale, con sentenza n.301/2012 e n. 135/2013; dal Comitato Italiano di Bioetica, che in un parere del 2013 riconosce i bisogni relazionali dei detenuti e il mantenimento dei rapporti familiari come elementi costitutivi del diritto alla salute, chiedendo “la possibilità di godere di intimità negli incontri fra detenuti e coniugi/partners, in modo da salvaguardare l’esercizio dell’affettività e della sessualità ”in ottemperanza al “principio etico della centralità della persona, anche in condizioni di privazione della libertà” (p.11 http://bioetica.governo.it/media/1825/p113_2013_salute-dentro-le-mura_it.pdf).
Se, a distanza di tanto tempo, le persone in stato di detenzione aspettano ancora la soddisfazione di un loro diritto, ciò non può essere imputato a semplice “ritardo” o “inerzia” nel modificare il regolamento che impedirebbe i rapporti intimi tramite il dispositivo del controllo visivo; bensì alla volontà tenace, celata dall’opacità del carcere, di mantenere la “implicita proibizione” della sessualità in carcere. Una vera e propria castrazione di un diritto costituzionale, di cui parla Andrea Pugiotto in un recente saggio (Giurisprudenza Penale, 2019).
Sosteniamo questa campagna, con forza e convinzione. Attuare la Costituzione è il miglior modo per difenderla.
Proposta di Legge
Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354 in materia di “tutela delle relazioni affettive intime
delle persone detenute”
La presente proposta di legge nasce dall’esigenza di dare uno sbocco normativo al dibattito politico
e legislativo, da anni in corso, sul tema del riconoscimento del diritto soggettivo all’affettività e alla
sessualità delle persone detenute.
Nel perseguire tale intento si recupera l’impostazione generale del progetto di legge presentato il 28
aprile 2006 (A.C. n. 32) dai deputati Boato, Ruggeri, Buemi, Balducci, rivista alla luce delle
riflessioni emerse a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 301/2012 e delle proposte
elaborate dagli Stati Generali dell’Esecuzione penale.
“Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un
carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà».
Queste sono le parole pronunciate dall’allora Direttore dell’Amministrazione Penitenziaria
Alessandro Margara durante l’audizione alla II Commissione Giustizia in ordine al nuovo
Regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario.
Era l’11 marzo del 1999 e il progetto di riforma del regolamento, elaborato sotto la responsabilità
del Sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone e del Dottor Margara, riconosceva all’articolo 58
il tema dell’affettività “nell’ambito dei rapporti con la famiglia, uno degli elementi del trattamento
previsto dall’art 28 della legge penitenziaria” introducendo, nel quadro di tali rapporti, la possibilità
per i detenuti di trascorrere con i propri familiari fino a ventiquattro ore consecutive in apposite
unità abitative realizzate all’interno dell’istituto penitenziario.
Com’è noto, dopo il parere del Consiglio di Stato n. 61 del 2000, la soluzione normativa trovata dai
proponenti, fu stralciata dal testo definitivo del regolamento approvato dal Consiglio dei Ministri
nel giugno 2000 poiché ritenuta contra legem: secondo il Consiglio di Stato, infatti, solo al
legislatore spettava il potere di adeguare sul punto la normativa penitenziaria attraverso “il
contemperamento tra i diritti più intimi della persona da un lato e la configurazione di fondo del
trattamento penitenziario dall’altro”. A tale argomentazione si aggiungeva inoltre il “forte divario
fra modello trattamentale teorico” prefigurato nel testo del nuovo regolamento penitenziario e
“l’inadeguatezza del carcere reale”.
Come osserva Andrea Pugiotto nel saggio Della castrazione di un diritto. La proibizione della
sessualità in carcere come un problema di legalità costituzionale pubblicato in Giurisprudenza
Penale 2019 2-bis, la vicenda “comunemente ricostruita come un episodio di eccesso di potere
regolamentare, testimonia piuttosto l’esistenza di un implicito divieto normativo di rango primario
che proibisce qualsiasi autorizzazione a rapporti sessuali inframurari.”
“Nel momento in cui il silenzio della legge n. 354 del 1975 trova la sua traduzione concreta -
prosegue Pugiotto - si rivela per ciò che realmente è: […] l’apparente anomia in tema di diritto alla
sessualità intramuraria cela, in realtà, un operante dispositivo proibizionista”.
Da allora, infatti, il tentativo di dare riconoscimento normativo al tema del diritto all’affettività e
della sessualità inframuraria è stato oggetto di numerosi progetti di legge elaborati da Camera e
Senato nelle scorse legislature, senza tuttavia trovare esito positivo.
Ma basta volgere lo sguardo al di là della nostra penisola perché il tema del diritto all’affettività e
alla sessualità diventi ambito effettivo, disciplinato in un numero sempre crescente di Stati (si veda
tra gli altri: Albania, Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia,
Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera) e riconosciuto come vero e proprio diritto soggettivo in
numerosi atti sovranazionali (Raccomandazione n.1340 (1997) dell'Assemblea Parlamentare del
Consiglio d’Europa sugli effetti sociali e familiari della detenzione, della Raccomandazione del
Parlamento europeo n. 2003/2188 (INI) sui diritti dei detenuti nell'Unione europea ed ancora della
Raccomandazione R(2006) 2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, sulle regole
penitenziarie europee).
“Una volta all’anno, in media, parlano dell’eventualità di lasciarli accoppiare - scrive Adriano Sofri
nella prefazione al libro Il medico degli ultimi di Francesco Ceraudo - altrove lo fanno, e non
vogliamo restare indietro. Siccome la nostra società, che ha finito di trattare il sesso nei giorni
feriali, come un bicchiere di acqua sporca, continua a vergognarsene nelle feste comandate, allora
preferisce parlare, piuttosto che di rapporti sessuali, di rapporti affettivi- affettività, parola
profilattica- madri che possono abbracciare i figli, famiglie che possono incontrarsi fuori dagli occhi
dei guardiani. In effetti, oggi non possono farlo.
Ma poi c’è il sesso: la nuda possibilità che un uomo o una donna in gabbia incontri per fare l’amore
una persona che lo desideri e consenta. Sarebbe giusto? È perfino offensivo rispondere: certo che
sì.”
E non potrebbe essere altrimenti, basti pensare che il diritto all’affettività - di cui l’attività sessuale
è «indispensabile completamento e piena manifestazione» - rappresenta «uno degli essenziali modi
di espressione della persona umana [...] che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente
tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2
della Costituzione impone di garantire» (Corte Cost. Sentenza n. 561/1987).
Ed è la stessa Corte Costituzionale che nella sentenza n. 301/2012, pur dichiarando inammissibile la
questione di legittimità costituzionale sollevata dal Magistrato di Sorveglianza di Firenze relativa
all’art 18 della legge n. 354 del 26 luglio 1975, richiama l’attenzione del legislatore al tema del
riconoscimento normativo del diritto all’affettività e alla sessualità delle persone detenute.
La possibilità per la persona sottoposta a restrizione della libertà personale di continuare a
mantenere, durante l’esecuzione della pena, rapporti affettivi anche a carattere sessuale, oltre che
essere «esigenza reale e fortemente avvertita» corrisponde ad un vero e proprio diritto soggettivo da
riconoscersi ad ogni detenuto.
Al Magistrato di Sorveglianza di Firenze in quella occasione venne imputato l’errore, scontato con
l’inammissibilità della questione, di aver omesso di descrivere la fattispecie concreta e di aver
chiesto alla Corte un intervento semplicemente ablativo della disposizione del controllo visivo
prevista dall’art.18 comma 2 della legge n. 354 del 1975, che non avrebbe comunque garantito la
tutela del diritto all’affettività e alla sessualità delle persone detenute.
Né, d’altra parte, il problema poteva essere superato attraverso una sentenza additiva “di principio”
che demandasse al legislatore il compito di definire modi e limiti dell’esercizio del diritto alla
affettività e alla sessualità inframuraria. La sentenza additiva “di principio” - rileva la Consulta -
risulterebbe, infatti, nell’ipotesi in esame “essa stessa espressiva di una scelta di fondo” di esclusiva
spettanza del legislatore.
“Il monito della Corte - osserva ancora Pugiotto - scavalca la mera sollecitazione rivolta al
legislatore affinché superi le proprie pigrizie e le proprie reticenze” poiché attesta “l’insufficienza
del dato normativo vigente che collocando in una dimensione esclusivamente extra muraria la
risposta di un bisogno primario, finisce per negarlo a quella larga parte della popolazione carceraria
cui de jure e de facto è preclusa la fruizione dei permessi premio”.
Partendo dal dato costituzionale dunque la possibilità per la persona detenuta di mantenere relazioni
affettive, comprese quelle a carattere sessuale, assurge a vera e propria posizione soggettiva
costituzionalmente riconosciuta che, pur sottoposta ai limiti inerenti alla restrizione della libertà
personale, non è affatto annullata da tale condizione. (Corte cost. Sentenza n. 26/1999).
Il tema, cosi ricostruito, ha fatto emergere la necessità di intervenire attraverso fonte primaria
sull’attuale disciplina al fine di garantire al detenuto l’effettivo esercizio del diritto all’affettività e
alla sessualità. Oltre ai numerosi progetti di legge presentati da Camera e al Senato nelle scorse
legislature e alla proposta elaborata dalla Commissione ministeriale incaricata di elaborare il
decreto legislativo delegato per la riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso, in
attuazione della legge n. 103 del 2017, ampia e profonda riflessione sul tema è stata quella portata
avanti degli Stati Generali dell’Esecuzione penale e, in particolar modo, dal Tavolo 6 “Mondo degli
affetti e territorializzazione della pena” e il Tavolo 14 “Esecuzione penale: esperienze comparative
e regole internazionali”.
E non è un caso che nel documento finale del Comitato il paragrafo titolato “il nocciolo duro della
dignità” introduca, tra le varie sezioni dei “bisogni” della popolazione detenuta non adeguatamente
riconosciuti, il tema delle relazioni affettive e in particolar modo della sessualità evidenziandone la
difficoltà della loro emersione nei termini di diritti fondamentali. “Il rispetto della dignità della
persona, infatti, non implica soltanto che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità, ma impone che l’esecuzione della sanzione sia concepita e realizzata in modo da
consentire l’espressione della personalità dell’individuo e l’attivazione di un processo di
socializzazione che si presume essere stato interrotto con la commissione del fatto di reato”.
Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti potranno, dunque, essere imposti solo se risulteranno
essere strettamente necessari all’esigenze di ordine e sicurezza correlate allo stato detentivo. In caso
contrario acquisterebbero “unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione
della libertà personale”, come tale incompatibile con la finalità rieducativa sancita all’art 27 della
nostra Costituzione (Corte Cost. Sentenza n. 135 del 2013).
E dalla necessità di “creare istituzioni decenti che non umiliano le persone” postulata dal filosofo
israeliano Avishai Margalit e di ridare slancio al tema dei diritti dentro e fuori dal carcere, che il
Comitato ha fatto proprie, per quanto riguarda il tema che qui ci impegna, quelle proposte
normative elaborate dai Tavoli tese a promuovere il contatto con il mondo esterno e le relazioni
affettive, comprese quelle a carattere sessuale, della persona detenuta.
In tal senso vanno lette, tra le altre, la proposta di modifica della disciplina del permesso per “gravi
motivi” o “di necessità” (co. 2 dell’art. 30 o.p.) tesa ad eliminare il requisito della “eccezionalità”
tra i presupposti per la concessione del beneficio e la sostituzione del requisito della “gravità” con
quello della “rilevanza” e la previsione dell’istituto ad hoc della “visita” all’interno di apposite unità
abitative collocate all’interno dell’istituto consentendo l’incontro con chi è autorizzato ai colloqui in
assenza di controllo visivo e/o auditivo da parte del personale di sorveglianza.
Questa proposta richiederebbe un intervento legislativo innovativo che, seguendo il sentiero già
tracciato dalla stessa Consulta nella sentenza 301/2012, disciplinasse “i termini e le modalità di
esplicazione del diritto di cui si discute” attraverso l’individuazione dei destinatari interni ed esterni,
dei presupposti comportamentali per la concessione delle visite, del loro numero, della loro durata e
delle misure organizzative volte a rendere effettivo l’esercizio di tale diritto. Occorrerebbe poi, una
graduale messa a regime della soluzione normativa prescelta attraverso un ripensamento degli
attuali spazi e tempi dell’esecuzione penale, anche sulla base dell’esperienza comparatistica in
materia (si veda in tal senso la proposta elaborata, in seno al Tavolo 14, dalla Prof.ssa Della Bella
ispirata all’esperienza francese).
“Tutta l’intelligenza e l’organizzazione carceraria è regolata sulla segregazione ferrata dei corpi -
scrive Adriano Sofri - Sa fare questo, aprire, chiudere, sbattere: e vuole continuare a farlo. Che
provi in un punto a fare altro. Non abbia paura di chiamare le cose con il loro nome. Torni a vedere
il nido del cuculo; e possa dire alla fine: almeno ci ho provato”
All’ articolo 1 si modifica l’articolo 28 della legge 26 luglio 1975, n. 354, che, riguarda i rapporti
con la famiglia (“Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o stabilire le relazioni dei
detenuti con le famiglie”).
Al proposito, si ritiene debba essere considerata anche l’affettività in senso più ampio. Pertanto, alla
rubrica dell’articolo (“Rapporti con la famiglia”), si è proposto di aggiungere “e diritto
all’affettività”.
Si propone, inoltre, di introdurre un nuovo comma, che recita:
“Particolare cura è altresì dedicata a coltivare le relazioni affettive. A tale fine i detenuti hanno
diritto ad una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore con le
persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in apposite unità abitative appositamente
attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi.”
In questo modo si lascia un ampio spazio alla definizione della natura di quelli che possono essere i
“rapporti affettivi”: con un familiare, un convivente, o anche di amicizia.
Così ricostruito, l’esercizio del diritto all’affettività e alla sessualità potrà essere effettuato da tutte
le persone autorizzate ai colloqui senza distinzione tra familiari, conviventi e “terze persone”:
limitare la tutela ai rapporti affettivi familiari o coniugali, avverte la Consulta sentenza 301/2012,
non solo non è l’unica soluzione ipotizzabile ma non appare neppure coerente con larga parte dei
parametri costituzionali.
Le unità abitative sono pensate come luoghi adatti alla relazione personale e familiare e non solo
all’incontro fisico, un tempo troppo breve infatti rischia infatti di far tramutare la visita in
esperienza umiliante e artificiale. Per tale ragione si è inteso prevedere che la visita possa svolgersi
all’interno lasso di tempo sufficientemente ampio. L’assenza dei controlli visivi e auditivi serve a
garantire la riservatezza dell’incontro.
All’articolo 2 si interviene sull’articolo 30 della legge 26 luglio 1975, n. 354, che prevede i
cosiddetti “permessi di necessità”, attualmente concessi solo in caso di morte o di malattie
gravissime dei familiari. Si propone di sostituire il secondo comma (“Analoghi permessi possono
essere concessi eccezionalmente per eventi di particolare gravità”) con il seguente: “Analoghi
permessi possono essere concessi per eventi familiari di particolare rilevanza”, quindi eliminando
sia il presupposto della “eccezionalità” sia quello della “gravità”, sempre interpretato come attinente
ad eventi luttuosi o comunque inerenti lo stato di salute dei familiari del detenuto. Con la modifica
introdotta si intende fare riconoscere che anche gli eventi non traumatici hanno una “particolare
rilevanza” nella vita di una famiglia, quindi rappresentano un fondato motivo perché la persona
detenuta vi sia partecipe.
All’articolo 3 si interviene sulle modalità attuative del diritto alla corrispondenza telefonica,
modificando la norma regolamentare nella frequenza e nella durata dei colloqui telefonici, che
potranno essere svolti quotidianamente da tutti i detenuti e per una durata massima raddoppiata, non
superiore ai 20 minuti Si propone, infine, di superare le ingiustificate restrizioni, nel numero dei
colloqui telefonici, riservate ai detenuti del circuito di alta sicurezza.
E’ infine auspicabile che, nelle more dell’applicazione della legge, il Dipartimento
dell’Amministrazione penitenziaria dia avvio ad interventi di sperimentazione e di adeguamento
delle strutture penitenziarie presenti sul territorio nazionale al fine di garantire, con l’entrata in
vigore della presente legge, il diritto alla visita in almeno un istituto per regione, con l’obbiettivo di
rendere effettivo tale diritto in tutto gli istituti penitenziari entro l’arco temporale di sei mesi.
Proposta di Legge
----
Art. 1
I. Alla rubrica dell’articolo 28 della legge 26 luglio 1975, n. 354, sono aggiunte, in fine, le seguenti
parole: «e diritto all’affettività”
II. All’articolo 28 della legge 26 luglio 1975, n. 354, è aggiunto, in fine, il seguente comma:
“Particolare cura è altresì dedicata a coltivare i rapporti affettivi. A tale fine i detenuti e gli internati
hanno diritto ad una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore con
le persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in apposite unità abitative appositamente
attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi”
Art. 2
I. Il secondo comma dell’art 30 della legge 26 luglio 1975, n. 354, è sostituito dal seguente:
“Analoghi permessi possono essere concessi per eventi familiari di particolare rilevanza”
Art. 3
1. All’art. 39, del D.P.R., 30 giugno 2000, n. 230, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) Al comma 2,
a. le parole “una volta alla settimana” sono sostituite dalla seguente: “quotidianamente”
b. il secondo periodo è soppresso
b) il secondo periodo del comma 6 è sostituito dal seguente: “La durata massima di ciascuna
conversazione telefonica è di venti minuti”.
Disposizioni transitorie e finali
I. [I] Con l’entrata in vigore della legge Il diritto alle visite dovrà essere garantito in almeno un
istituto per Regione.
[II] Entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge il diritto alle visite dovrà essere garantito in tutti
gli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale.
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