Il Tribunale solleva il caso alla Consulta
Dal Corriere della Sera, 19 febbraio 2013
“Detenzione da rinviare o è incostituzionale”. Il Tribunale di Sorveglianza
di Venezia solleva il caso alla Consulta. Carceri a numero chiuso come
“unico strumento per ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale
l’esecuzione della pena” se le condizioni detentive sono “contrarie al
principio di umanità”: mentre sui 66 mila detenuti in 47 mila posti il
legislatore latita e i partiti tacciono a dispetto dei richiami del capo
dello Stato e delle inascoltate denunce dei radicali, con una ordinanza
senza precedenti un Tribunale di Sorveglianza italiano, quello di Venezia,
solleva d’ufficio una questione di incostituzionalità.
E chiede alla Consulta una sentenza “additiva”, che cioè dia ai giudici la
facoltà di sospendere e rinviare l’esecuzione in carcere della pena di un
detenuto non soltanto quand’essa potrebbe determinare “grave infermità
fisica” (unico evento oggi contemplato dalla legge), ma anche nei casi in
cui verrebbe scontata in condizioni intollerabili di sovraffollamento e
dunque si risolverebbe in “trattamenti disumani e degradanti”, secondo la
definizione della Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo nelle
sentenze che hanno condannato già due volte l’Italia per aver lasciato ai
carcerati meno di 3 metri quadrati a testa.
L’espressione “numero chiuso” naturalmente non compare mai nella dotta
ordinanza redatta dal Giudice di Sorveglianza di Padova Marcello Bortolato,
nel collegio presieduto da Giovanni Maria Pavarin. Ma sarebbe la
conseguenza pratica se la Consulta accogliesse la questione: come negli
Stati Uniti, dove la Corte Suprema nel 2011 ha confermato l’ordine che nel
2009 una Corte federale aveva intimato al governatore della California di
ridurre di un terzo la popolazione carceraria in base all’ottavo
emendamento della Costituzione americana che vieta le pene crudeli; o a
come in Germania, dove sempre nel 2011 la Corte costituzionale ha
richiamato il dovere di interrompere reclusioni “disumane” se le soluzioni
alternative sono improponibili.
Il dilemma postosi al Tribunale riguardava una richiesta di sospensione e
differimento della pena avanzata da un detenuto che, dopo 33 giorni con a
disposizione 3,03 metri quadrati nella casa di reclusione di Padova (889
presenze contro 369 posti regolamentari), era stato trasferito nella casa
circondariale (226 detenuti contro una capienza di 104) per 9 giorni con
2,43 mq a disposizione, e per 122 giorni con 2,58 mq di spazio, peraltro in
concreto ridotti dal mobilio. Comunque sempre meno dei 3 mq a testa che
Strasburgo (nelle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani di condanna
dell’Italia nel 2009 e 2013) ha ritenuto parametro vitale minimo al di
sotto del quale c’è violazione flagrante dell’articolo 3 della Convenzione
dei Diritti dell’uomo e dunque, per ciò solo, “trattamento disumano e
degradante”.
Il Tribunale muove dalla propria impotenza: deve eseguire una pena che sa
disumana e degradante, ma non può evitarlo perché l’articolo 147 (invocato
dall’avvocato Diego Bonavina) consente di rinviare l’esecuzione della pena
solo in caso di grave malattia. Eppure, ragionano i giudici, mentre la pena
resta legale anche se la rieducazione verso la quale deve obbligatoriamente
tendere non viene raggiunta, il fatto che essa non possa consistere in un
trattamento contrario al senso di umanità significa che “la pena inumana
non è legale, cioè è "non pena ", e dunque andrebbe sospesa o differita in
tutti i casi in cui si svolge in condizioni talmente degradanti da non
garantire il rispetto della dignità del condannato”. Da qui la richiesta
alla Consulta di estendere anche a questi casi la facoltà del giudice di
rinviare la pena dopo aver operato, volta per volta nella vicenda singola,
un “congruo bilanciamento degli interessi da un lato di non disumanità
della pena, e dall’altro di difesa sociale”.
(Luigi Ferrarella)
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